Giungla buoni pasto, la rivolta dei bar

La Fiepet chiede verifiche sulle società emettitrici: «Rischio fuga di associati». Dietre del Loto: «Perché io ho detto basta»


di Luca Marognoli


TRENTO. La torta dei buoni pasto la mangiano in tanti, ma c’è sempre qualcuno che vuol prendere una fetta più grossa di quanto gli spetti, magari approfittando di avere il coltello dalla parte del manico. Succede, sempre più spesso, tra le società emettitrici dei tagliandi, che alzino di propria iniziativa la commissione pattuita nel contratto, paghino in ritardo o “dimentichino” di rimborsare parte del dovuto. Una volta vinto l’appalto, si sentono libere di fare il bello e cattivo tempo, sapendo che la crisi ha fatto diventare i buoni pasto decisivi per la sopravvivenza di un bar o di un piccolo ristorante. Per evitare abusi Fiepet Confesercenti è corsa ai ripari: le ha messe sotto la lente di ingrandimento, chiedendo alla Provincia di vigilare sulla loro affidabilità e correttezza nelle gare per l’aggiudicazione degli appalti. Come? Facendo rispettare il codice etico firmato dalle stesse società emettitrici.

«Negli ultimi anni sono aumentati di molto i partecipanti alle gare», dice Massimiliano Peterlana, presidente degli esercenti. «Quello che vogliamo evitare è che entrino in gioco società che non sono corrette con i nostri associati. Ad esempio che non siano chiare nei contratti. Capita quando ti fanno magari il 5% e durante il periodo di contratto alzano la percentuale richiesta, quando non tengono conto degli accordi nei pagamenti, che invece che a 60 arrivano a 90 o 120. Ma succede anche quando dicono di aver ricevuto 90 buoni invece dei 100 spediti... Il problema è che non c'è via d'uscita: se rifiuti i buoni, i clienti non vengono più». Ci sono, naturalmente, alcune società serie, che rispettano alla lettera gli accordi sottoscritti. «Noi chiediamo che l’azienda che vince sia anche sottoposta a controlli per verificare che sia seria. Altrimenti succede che fanno la corsa al ribasso ma recuperano i soldi in questo modo».

Oggi - continua Peterlana - «ci sono ristoratori che hanno impostato il proprio lavoro sui buoni e se quelli vengono meno diventa difficile riciclarsi: è il caso di chi fa 100-200 dipendenti della banca ogni giorno». C’è chi riesce a crearsi una propria clientela, rinunciando ai tagliandi, ma deve avere le spalle larghe. «Attualmente aderisce almeno il 50% di bar e trattorie. Però tanti hanno pensato di sganciarsi, visto i “casini” che sono successi. E’ per quello che siamo intervenuti sulla Provincia: per evitare che scappino».

Uno dei “coraggiosi” è Alessandro Dietre, titolare del ristorante Loto di via Gocciadoro e del nuovo bar Plan di largo Carducci. «Negli anni abbiamo diminuito sempre di più il numero dei buoni accettati e oggi rappresentano solo il 3% annuo del nostro fatturato», spiega. Una scelta che ha comportato dei sacrifici. «L'Asis, ad esempio, ha dei buoni di una società che vuole il 7% degli incassi. Io le ho offerto il 5% in aprile e non mi ha ancora risposto. Spiegatemi qual è il motivo per cui dovei accettare i suoi buoni, visto che i clienti sono a 50 metri dal mio locale. Sono anche tagliato fuori dalla Provincia perché non offro pasti a prezzo fisso. Alcuni colleghi disperati, invece, fanno ulteriori sconti, mentre altri ancora fanno il “buono del buono” per la differenza». Dietre paragona le società emettitrici a «zecche private», perché - dice - «stampano di fatto denaro: il buono è nato come servizio sostitutivo della mensa, invece è usato come moneta corrente perché viene spesso cumulato, cosa che non si potrebbe fare. Il tesserino elettronico è stato ideato proprio per evitare che la gente paghi con 20 buoni. Ma adesso si fa la stessa cosa anche con quello: con il Postepay, ad esempio, puoi scaricare anche 30 buoni da 2 euro e mezzo».

Il ristoratore non ci sta: «Ditemi perché costa di più affiliarsi a McDonald’s, che a una i queste anonime società. Ti fanno sentire imbecille: quando non va la tessera, devi rilevare manualmente i dati del cliente, poi magari scopri che l'azienda datrice di lavoro non è convenzionata. A volte addirittura ci sono le Ati e tu devi mandare i buoni alla società giusta: altrimenti tornano indietro e ricomincia la festa».

Rifiutare i buoni ha un prezzo: «Alcuni clienti se ne vanno. Ad esempio quelli del Da Vinci non vengono e li capisco. Qualcuno si vede ancora, ma non possono pagare di tasca loro ogni giorno». Dietre avanza una proposta: che la Provincia emetta buoni pasto propri. «Almeno sappiamo che i soldi vanno in opere pubbliche, non a società sconosciute di fuori regione. Quella che ha visto l’appalto ha sede a Milano ed è praticamente impossibile da raggiungere».

Sì, perché gestire i buoni per un ristoratore è diventato un lavoro supplementare: «Chissà come mai nel conteggio ne manca sempre qualcuno... Poi devi fare la spedizione per assicurata, perché se non arrivano sono fatti tuoi. E alcuni ti fanno pagare anche il noleggio delle macchine. Ho fatto il calcolo a tavolino: alla commissione devo aggiungere un altro 4%. Il totale è un 11-12% di perdita secca. In cambio di cosa? Di niente».

Alla fine anche i clienti rischiano di perderci: «Diciamo la verità: se ti fanno pagare fino al 9%, tu vai al supermercato e prendi prodotti di qualità inferiore: prosciutto spalla, formaggio fuso e ricomposto, pasta che scuoce ...». Non solo: «I buoni scadono e se li spedisci magari un mese dopo alle società non ti tornano in dietro. Evidentemente anche la carta deperisce... Ascoltate me - conclude Dietre -: i buoni sono la piaga della ristorazione».

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