Il racconto

Muri di roccia e vette di fatica

Il Giro d'Italia sulle Tre Cime di Lavaredo


Toni Sirena


«Donnerwetter». Tuoni e fulmini avevano pronosticato sulle Tre Cime, invece non c'è neanche un po' di nebbia da masticare, ché alla fine è volata alta. Sfatata la maledizione delle Lavaredo, che per cinque volte, tra '67 e '89, hanno accolto l'arrivo del Giro. Memorabile il '68: diluvio sotto, neve in cima. E invece oggi niente o quasi. Qualcuno in Tv cerca anche di evocarla, la neve, annunciando l'inizio dei fiocchi. Ma basta una telefonata da quota 2320: «Fiocchi? Qualcuno scherza». Alla stessa ora, a Moena c'è ancora il sole a 24 gradi quando passa il truppone. Inizia così, con gli auspici del bel tempo, la 15a tappa partita da Trento per scalare le Dolomiti. Centonovanta chilometri di montagne russe, con un gran mettere e togliere giubbetti e guanti.

Si sale al San Pellegrino, e Piepoli già parte anche se la via è ancora lunga. Ma di gente non se ne vede, saranno tutti alle Tre Cime, luogo topico dentro il mito del Giro. O forse sugli altri passi, il Giau o il Tre Croci. Duecentomila, dicono, sono appostati sulla strada. La temperatura sbalza dai 24 del fondovalle ai 12 del San Pellegrino. Ragazzi, qui si va sulle Dolomiti vere, il percorso ricalca la faglia di confine tra Belluno Trento e Bolzano, dove da un anno si avvertono le scosse «secessioniste». L'eco delle polemiche non si sente, neanche sui cartelli o sulle scritte, però questa è una montagna che soffre la fatica del vivere, come i corridori stanno soffrendo quella del pedalare. Sicché eccoli correre tra boschi e valli, e salire e scendere su quella sottile striscia di confine, tra Falcade e Colle Santa Lucia, il Giau e Cortina e il passo Tre Croci, Misurina e Tre Cime. Panorama mozzafiato da «patrimonio dell'umanità», che in Tv si indovina dall'elicottero, e che alla fine si vede e non si vede tra le nuvole. Il truppone passa e guadagna terreno sui fuggitivi precoci.

La gente si aggruma sui passi dove c'è da vivere il Giro. E' lassù che sono gli operai del pedale, gli impiegati delle due ruote in libera uscita, i transumanti in camper, i volenterosi del ciclismo amatoriale. Giù verso Cencenighe sono ormai 19 al comando, e la maglia rosa è in ritardo. Passa Alleghe, passa Caprile. Strappo di 500 metri fino a Colle Santa Lucia che non è un colle ma un paese. Non c'è tempo per fermarsi al Belvedere, strepitoso sulla Civetta. Alle 14,20 annunciano 11 gradi e neve a fine tappa ma non è vera né l'una né l'altra cosa. Si passa Colle, e c'è poca gente. Di più al bivio per il Giau. «Viva il Giro», proclama una scritta. «Cunego camoscio delle Dolomiti», tifa uno striscione. All'undicesimo tornante il fiato è da inverno. Il gruppo recupera e la folla si infittisce, sul Giau è già una muraglia, «marogna» come la chiamano lassù, la «marogna del Giau». Una lunga attesa per vederli passare per qualche secondo, lanciare un grido e via, il Giro è già finito, c'è chi in quel grido ha investito un giorno e una notte.

Nella folla spunta il solito diavolo tedesco, con tanto di forcone. Mancano 40 chilometri, sarà che sono lì a spingere come dannati, sarà che hanno ancora fiato da gettare. Julio Perez Cuapio, diavolo d'un messicano, chiede il forcone e finge di pungere il didietro di Riccò e Piepoli che tirano i fuggitivi. Ride sul Giau la gente accampata, bandiere italiane mescolate al leone di San Marco, orecchie da asino per Bruseghin, scritte per Gibo. E Riccò che scaraventa da parte un tizio che insiste a corrergli accanto. Dai 2236 del Giau, giù a capofitto a Cortina, lo scenario si apre su Tofane, Faloria, Pomagagnon. Ritornano le montagne russe. Sulle Tre Cime la telecamera approfitta di uno squarcio di sole e inquadra sopressa e luganeghe. Ma il tempo cambia di nuovo, ad Alverà è un bosco di ombrelli, sulle Tre Cime cala la nebbia. «Dantesco», propone lo speaker. Di sicuro c'è un mare di camper. C'è una città lì sopra, la folla si addensa dentro l'iconografia rosa del Giro. Dopo i 1805 del Tre Croci piove forte. Ecco Misurina, campo base per l'arrampicata alle Tre Cime che da quaggiù si fanno vedere solo in due e oggi neanche una visto che le vette hanno la testa fra le nuvole. Un lago, quello di Misurina, che la leggenda vuole nato dalle lacrime di un gigante delle Dolomiti.

Oggi è cresciuto un po' di livello, con tutte quelle lacrime di fatica versate nei sette chilometri di golgota fino al rifugio Auronzo. A guardare in Tv gli arrivi di tappa del passato, in bianco e nero, le altre volte sembrava un assedio, un aiuto generoso a quattro mani e quattro piedi, uno spingi spingi da rigore, e infatti nel 1967 è pure finita annullata di brutto. Oggi c'è più gente ma più ordinata. A sette chilometri già non si passa quasi. Una spinta a Riccò, ma è appena un abbozzo. I fuggitivi resistono, gli inseguitori incalzano, Mazzoleni rimonta, ma la situazione cambia poco. Infilano il casello senza pagare pedaggio sulla strada più contestata delle Dolomiti. Un muro la folla, un muro la strada. Cos'avrà mai da ridere, Riccò? Ah no, non ride, soffre. Piepoli è una smorfia, Perez annaspa. Dietro, Schleck fa linguacce. Di Luca è imperscrutabile, del resto è serio anche quando ride. Che fatica.













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