Il «finto» commercialista tradito dal biglietto da visita

Condannato per esercizio abusivo della professione dopo la denuncia della società che gli aveva affidato incarichi fiscali e contabili. Per la Cassazione ricorso inammissibile: dovrà pagare mille euro



TRENTO. Alla fine, dicono i giudici, è stato tradito da un biglietto da visita. Biglietto da visita sul quale aveva indicato - questa è l’accusa - dei titoli professionali e di studio che non aveva. E così era finito a processo per esercizio abusivo di una professione. L’uomo era stato condannato in primo grado dal tribunale di Trento del 2010, c’era stata una parziale riforma da parte della corte d’appello l’anno successivo (nel senso della concessione della sospensione condizionale della pena) e quindi c’è stato il ricorso in Cassazione con la difesa che aveva presentato ricorso deducendo con il primo motivo inosservanza di legge penale e vizio di motivazione. Un ricorso che nella sentenza della suprema corte di una ventina di giorni fa, è stato definito inammissibile per manifesta infondatezza. E c’è stata la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di mille euro a favore della cassa delle ammende.

Ma vediamo cose è successo. Secondo la Cassazione era stata accertata la presenza di prove sulla qualifica professionale di commercialista che sarebbe stata prospettata dall’uomo alla ditta per la quale prestava la sua attività per la consulenza fiscale e contabile. E a incastrare l’uomo sarebbe proprio il biglietto da visita dove era stati «incisi» titoli professionali e di studio che non sarebbero mai stati conseguiti. E la Cassazione sottolinea come «il tribunale in primo grado ha anche analiticamente valutato la documentazione riguardante gli incarichi attribuiti dalla denunciante all’uomo, giungendo alla conclusione che riguardassero tutti gli adempimenti, fiscali e contabili della società gestita dalla donna, attività il cui esercizio è riservato in via esclusiva alla competenza professionale di un commercialista, titolo prospettato in sede di conclusione del contratto di cui l’uomo non è mai stato in possesso. Conseguentemente, la circostanza che materialmente il contratto di consulenza sia stato conferito alla società a lui riconducibile, non esclude l'esercizio abusivo della professione, posto che, da un canto proprio il titolo professionale era stato alla rappresentante della ditta evocato all'atto del conferimento del mandato, né risulta in alcun modo dedotto che di fatto la società si servisse di professionisti abilitati al fine di svolgere le funzioni conferite dalla donna». La difesa dell’uomo aveva sottolineato come nel contratto stipulato con la società che aveva presentato la denuncia e quella per cui prestava la sua attività il denunciato, non risulta convenuto lo svolgimento di attività riservate al commercialista, poiché oggetto dell'accordo era esclusivamente l'incarico di tenuta della contabilità, mentre non è stato dimostrato l'affidamento di ulteriori attività riservate. Un ragionamento che, come s è visto, non è stato accolto dalla Cassazione.

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