Delitto De Cia, 30 anni di misteri 

Il caso irrisolto. Gianni Kessler è il magistrato che indagò all’epoca dell’assassinio: «Mi porto dentro il senso del fallimento, ma anche questo fa parte del nostro lavoro. All’epoca fu fatto tutto il possibile. Di una cosa sono certo: chi sparò, non lo fece per caso, conosceva Maria Luisa»



Trento. La trovarono morta, un colpo di pistola alla tempia, nei pressi di Malga Civertaghe, a poca distanza da San Martino di Castrozza. Così morì Maria Luisa De Cia, all’epoca ventottenne, di Sorriva di Sovramonte (Belluno). Era il 16 agosto del 1990 e da allora l’autore del delitto è rimasto avvolto nel mistero: tante ipotesi, una riapertura del fascicolo 10 anni fa. Ma nulla.

A trent’anni di distanza «pesa ancora non aver risolto questo mistero». Così Giovanni Kessler, allora sostituto procuratore a Trento, ricorda la difficile indagine, scavando nella memoria per raccontare quella che a tutti gli effetti è una sconfitta, «che fa però parte del nostro lavoro: abbiamo davvero fatto il massimo, usando le competenze che erano disponibili allora».

Dottor Kessler, cosa ricorda dei primi momenti dell’indagine sulla morte della De Cia?

Le difficoltà si sono palesate subito. L’omicidio era avvenuto in un bosco. Il corpo della donna è stato trovato dopo un giorno: e durante la notte aveva anche piovuto molto. Abbiamo fatto tutto il possibile per recuperare i reperti, che purtroppo le condizioni atmosferiche avevano già compromesso. Ricordo che abbiamo chiamato i rocciatori della Guardia di finanza per scandagliare il dirupo che era a pochi passi dal luogo dell’omicidio, alla ricerca dell’arma. Ma non l’abbiamo trovata.

L’arma appunto, anche questo è rimasto un grande mistero.

Appena avuta la notizia dell’omicidio ho fatto subito arrivare un patologo della Medicina legale di Padova, perchè ispezionasse il corpo prima che venisse portato via. Arrivò in quel bosco sopra Malga Civertaghe ancora prima di me. E lì, già subito, si capì che identificare l’arma sarebbe stato difficile. Da subito il medico legale ha ipotizzato che fosse un’arma artigianale, non convenzionale, di piccolo calibro. Ma non siamo mai riusciti a capire che arma fosse. E nessun reperto importante è stato trovato, Dna o impronte digitali, che ci potessero aiutare».

Un altro ostacolo è stata la mancanza di testimoni. Come li avete cercati?

In ogni modo possibile. Abbiamo tappezzato il Primiero con i volantini, chiedendo la collaborazione di tutti, residenti e turisti, abbiamo battuto a tappeto gli alberghi. L’omicidio è del 16 agosto, in pieno periodo di ferie, con persone che vanno e vengono, ma noi le abbiamo cercate tutte. Il nucleo investigativo dei carabinieri di Trento si trasferì in pratica a Fiera di Primiero dove rimase a lungo. Anch’io andai sul posto per giorni. Eppure alla fine delle indagini abbiamo trovato solo due persone che all’ora dell’omicidio, attorno alle 14 del 16 agosto, hanno sentito un terribile grido dall’altra parte della valle. Niente altro. Nessuno che l’abbia vista con il suo assassino dopo che aveva lasciato la macchina a poche centinaia di metri da Malga Civertaghe; nessuno che l’abbia vista mentre passava accanto alla malga, che era affollata, o lungo il sentiero che sale verso il Velo della Madonna. Nessuno».

Un anno dopo, quasi nei giorni del primo anniversario, avete diffuso un identikit. La ricostruzione però sembrò fin da subito incerta.

L’identikit venne fatto molto tempo dopo l’omicidio, realizzato mettendo a confronto due testimonianze. La prima è quella di una persona seduta fuori dal bar di Ponte Oltra che vide arrivare una macchina che parcheggiò girata verso il Primiero. Poco dopo arrivò da Sorriva la macchina della De Cia e le due auto partirono, davanti la Panda rossa della donna, dietro l’altra macchina. Era passato tanto tempo dal fatto e la persona che vide la scena non seppe darci una indicazione sul tipo di macchina dell’uomo. L’altro testimone era un autista che si trovò le due auto davanti e non riuscì a superarle, se non dopo parecchio tempo. Ovvio che un identikit realizzato in questo modo sia poco attendibile.

Quale è stata la vostra ipotesi principale sul movente?

Noi eravamo tutti molto convinti che non poteva essere un omicidio casuale. Era difficile pensare che avesse trovato la morte per caso, per un incontro sbagliato con uno sconosciuto. Doveva essere una persona che lei conosceva, con cui si era data appuntamento.

Si parlò molto della telefonata ricevuta la sera prima, a Sorriva, nella casa dei genitori, con cui potrebbe aver dato l’appuntamento a qualcuno.

Ce ne parlò il padre, ma non abbiamo avuto altri riscontri. Certo, le indagini si sono subito dirette verso le sue amicizie, passate e presenti, abbiamo passato al setaccio gli alibi di tutti coloro che la conoscevano e la frequentavano. Ma dalla sua vita privata non è emerso nulla, non c’erano ombre. Ho parlato a lungo con la sorella, con cui Maria Luisa De Cia aveva un rapporto stretto. Il ritratto della donna emerso dalle nostre indagini è che avesse una vita tranquilla. Sono andato anche in Germania per parlare con un uomo che aveva conosciuto».

È stato un caso clamoroso, quello dell’omicidio De Cia, un caso non risolto.

C’era molta emozione, perché tutti si poteva identificare con la vittima, una persona per bene, tranquilla, a cui era accaduto qualcosa di misterioso, senza un motivo conosciuto. C’era anche molta apprensione, molta paura.

Dopo due anni e mezzo di indagine è arrivata l’archiviazione.

L’ho chiesta perché non c’era più nulla che si potesse fare. Ma le indagini per omicidio si possono riaprire senza problemi, se ci sono nuovi indizi o nuove strade».

Cosa prova a ricordare questo caso, dopo tanti anni?

Un peso, un senso di fallimento, anche se questo fa parte del nostro lavoro di indagine. A volte basta anche un po’ di fortuna, per risolvere un caso. Noi non l’abbiamo avuta.













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