Come affrontare il tabù della morte

Folla al corso per operatori sanitari. La dottoressa Selmi: «Lo shock della perdita si supera insieme, l’aiuto è importante»


di Luca Pianesi


TRENTO. Medici, infermieri, operatori socio sanitari, ostetrici, psicologi: sono loro le categorie professionali più a stretto contatto con la morte. Per lavoro sono costretti tutti i giorni a rapportarsi con persone che scompaiono, che non superano una malattia o un trauma, con i parenti ai quali va data la tragica notizia e che devono essere accompagnati nell’elaborazione del lutto. Ed a loro è diretto il corso che si terrà oggi nell’Aula Magna dell’ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto condotto dalla psicologa, psicoterapeuta e responsabile S.s.p.o e Cure Palliative Uo di Psicologia 2 a Rovereto, Silvana Selmi. «Doveva essere un corso di aggiornamento – spiega la dottoressa – interagente e interattivo, ma si trasformerà, giocoforza, in una conferenza informativa a causa dell’enorme numero di partecipanti che si sono iscritti. Abbiamo avuto 102 richieste che dimostrano l’enorme interesse che c’è in ambito sanitario per questa tematica e visto che l’Aula Magna può contenere solo 90 persone abbiamo già in mente di ripetere l’evento ad aprile».

Dottoressa, secondo lei come mai tante richieste di partecipazione?

Perché anche in ambito sanitario la morte resta un argomento tabù e per molti medici, operatori, infermieri la formazione riguardo questo tema resta pressoché nulla. Ci sono giovani che studiano medicina, sanno che se c’è un arresto cardiaco, il paziente muore, sanno il come e il perché sopraggiunge il decesso ma poi, una volta divenuti dottori, non hanno gli strumenti per gestire i momenti successivi all’evento morte.

E’ tutto affidato all’esperienza sul campo?

Esattamente. E ciò provoca dei gravi disagi in tutti i professionisti del settore. Studi sul burnout (che è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce determinate categorie di lavoratori) dimostrano che i livelli di stress di molti operatori degli ospedali sono molto maggiori di chi si occupa di hospice e cure palliative e quindi di professionisti che, per mestiere, si confrontano tutti i giorni con malati terminali e temi come quello del fine vita. E la ragione è molto semplice: questi ultimi fanno corsi di formazione appositi per affrontare in maniera consona e distaccata il tema della morte e lavorano sempre e solo in equipe.

Lo shock della morte si supera collettivamente?

Si. Per medici e operatori sanitari, in assenza di una formazione apposita, è questo il segreto per superare certe situazioni. Il non essere mai soli, il sentirsi sempre parte di un reparto, di un team. L’avere un collega più anziano che può spiegare cosa fare e come ci si comporta dopo aver perduto un paziente può essere decisivo. E poi l’operatore sanitario ha anche il compito di dare la notizia, per esempio alla famiglia del paziente, agli amici della persona scomparsa. Ancora oggi, ci si affida molto alla pratica e alla sensibilità dei professionisti, ma sarebbe bene formare a dovere gli operatori del settore. Per esempio è molto diversa la percezione del lutto che ha un bambino e quella che ha un adulto e quindi in maniera diversa vanno trattati e accompagnati.

Com’è percepita la morte nei diversi stadi evolutivi dell’uomo?

Fino ai 3 anni il bambino naturalizza il concetto di morte. Per lui è un astrazione facilmente assimilabile anche perché nelle storie, nei cartoni, nelle canzoni per piccini c’è sempre un personaggio che muore, è fisiologico. Tra i 4 e i 5 anni la percezione della morte si evolve in qualcosa di magico. Al bimbo infatti si dice che la persona cara è andata a stare su una stellina o che è salita in cielo. Le cose si complicano con la preadolescenza e l’adolescenza: si perde il senso magico, la percezione è più legata al vissuto e si concentra sul concetto di perdita definitiva. Si comincia a percepire il senso di abbandono, che è massimo per l’adulto. Quest’ultimo è quello che ha più problemi a lasciar andare una persona cara e in lui vengono ad accrescersi i sensi di solitudine e insicurezza, che si superano proprio con l’accompagnamento di chi viene a trovarsi in queste situazioni. Storicamente tale accompagnamento era fatto dalla società e si concretizzava con i rituali funebri. Oggi abbiamo in parte perso il senso della solidarietà collettiva. E’ quindi sempre più importante che tale aiuto arrivi anche dai professionisti e dagli operatori sanitari.

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