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«Siamo bloccati da 30 anni. Serve lavoro giovane»

Intervista all'economista Gianfranco Cerea: "All'economia italiana servirebbero 300mila nuovi immigrati. E il Trentino in proporzione ha lo stesso problema". Il tema dei salari bassi


Jacopo Strapparava


TRENTO. Le nuove generazioni guardano al lavoro in altro modo. Vogliono flessibilità per avere più spazi di vita, non per ridurli. E se rispetto alle generazioni precedenti guardano al lavoro con un approccio completamente “altro”, ciò accade soprattutto per una grande precarietà. Per il crollo dei salari. Per la stagnazione dell’economia. Su questo versante del problema ascoltiamo l’economista Gianfranco Cerea.

Professor Cerea, quand’è che l’economia italiana ha smesso di crescere?

«Dagli anni 90. Siamo in una stagnazione trentennale. In questi anni l’ex Terzo Mondo – Brasile, India, Cina, Sud Africa – è cresciuto, partiva da livelli molto bassi. Gli Stati Uniti, bene o male, hanno continuato a svilupparsi, anche se a ritmi minori rispetto a un tempo. L’Europa no, ha perso colpi».

E l’Italia?

«Le do qualche dato. Nei primi anni 90, quanto a pil, l’Italia era sopra a Francia e Regno Unito, sotto la Germania di un 30%. Oggi, rispetto a Francia e Regno Unito, l’Italia è sotto del 25%. Rispetto alla Germania, sotto del 50%».

Com’è stato possibile un simile tracollo?

«Avevamo tutta una serie di imprese e settori con prodotti di scarso valore, non hanno retto la concorrenza dei Paesi emergenti, e sono spariti. Da noi le imprese sono piccole: troppo deboli, troppo locali, non sono riuscite a sfruttare l’apertura dei mercati internazionali. Imprese piccole non crescono, non assumono, non fanno investimenti. L’altro problema è la maniera in cui allochiamo i nostri risparmi…».

Per esempio?

«Se gli italiani comprassero azioni della Ferrari, avremmo una Ferrari più grande. Invece, noi, appena mettiamo soldi da parte, compriamo case e titoli di Stato. Così non si mette denaro in circolo, e le imprese sono costrette a indebitarsi. La riprova: la capitalizzazione della Borsa Italiana è modesta, metà di quella olandese. Tolte le banche, piazza Affari ha poco o nulla».

Cosa risponde a chi dice che l’Italia entrando nell’euro non ha potuto più svalutare la lira e questo ne ha azzoppato la crescita? Se svaluti la tua moneta, le esportazioni diventano meno costose e l’economia cresce…

«Ma questo è vero solo nel breve periodo. È una cura palliativa, non una terapia. Oltretutto, così si generava inflazione. Si danneggiavano i risparmiatori. Ascolti. Se io ho un debito di 100, con l’inflazione al 10%, ottengo un debito di 90 e ci guadagno. Ma se ho un risparmio di 100, con l’inflazione al 10%, ottengo un risparmio di 90 e ci perdo».

In Trentino siamo messi meglio del resto d’Italia?

«Un filo meglio. Messa la crescita italiana tra il 1995 e il 2019 uguale a 100, il Trentino è cresciuto di 118. L’Alto Adige, più legato di noi all’economia tedesca, di 122. Lombardia e Veneto di 109»

La Calabria?

«La Calabria di 80, la Sicilia di 77. Ma non succede solo al Sud. Negli ultimi 25 anni, abbiamo osservato il tracollo di Piemonte e Liguria, la crescita del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia. Il Friuli è stagnante. Il Lazio cresce. Tutto le altre regioni non crescono, oppure decrescono».

Direi che per Trento è una promozione.

«Nella graduatoria nazionale l’Alto Adige è il più ricco, la Lombardia è seconda, il Trentino terzo. A riconferma della dinamica economica c’è la dinamica demografica. Il Trentino attira popolazione. Attira immigrati in quota simile a quella del resto del Nord. E attira altri italiani, in quota superiore a quella del resto del Nord».

Se dovesse individuare un problema dell’economia trentina?

«Manca manodopera. Secondo la Ragioneria generale dello Stato per tenere in piedi l’economia italiana servirebbero 300 mila nuovi immigrati. Anche in Trentino, in proporzione, abbiamo lo stesso problema».

Sono i famosi lavori che gli italiani non vogliono più fare?

«Non solo quelli. Mancano medici. Manca gente che lavori nei Comuni: all’anagrafe, negli uffici tecnici, negli uffici che si occupano del bilancio».

Forse il problema è che per quei lavori i salari sono molto bassi…

«Senza dubbio».

A proposito, come mai in Italia i salari sono così bassi?

«Ci sono due spiegazioni. La prima è la bassa crescita, dovuta anche a una bassa produttività. La seconda è legata a questioni di carattere contrattuale. Un maestro elementare prende 1400 euro ovunque. Solo che con 1400 euro in Calabria vivi bene, nella Bassa Pavese campi dignitosamente, a Milano sei morto di fame».

Per chi abita a Milano la questione stipendi è un tasto dolentissimo.

«È lo stesso problema che incontrano i ragazzi italiani a Londra. Sono contenti, li pagano tanto. Ma scoprono che lassù la vita costa tantissimo».

Ho un’obiezione. Chi va a Londra, all’inizio ha una vita molto dura. Ma accetta di fare sacrifici, perché presto o tardi sarà ripagato. Lì il mondo del lavoro è molto dinamico, la carriera si fa in un battibaleno.

«Di nuovo: è che da noi le aziende sono piccole. A Londra ci sono studi legali con 10 mila dipendenti. Se lei è bravo, lì dentro riesce a far carriera. Se lei resta in Italia e va nello studio del vecchio avvocato con la segretaria… Al massimo, può ambire a prendere il posto del vecchio avvocato, se il vecchio avvocato sparisce. Solo che non sparisce mai».

 













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