Panato alle Olimpiadi: «La mia medaglia? Sudata a Casa Italia»

Nuova avventura a 5 cerchi per il fotografo del “Trentino”. «Una corsa dal mattino alla sera in un palazzo di sei piani»



LONDRA. Suda come gli atleti correndo da una conferenza stampa all’altra e si sente anche lui al collo una medaglia: quella di “veterano” dei Giochi. Dino Panato, storico fotografo del “Trentino”, è in ferie-lavorative all’ombra del Big Ben.

Dino, come sta andando la tua Olimpiade?

Stanno andando bene, pur facendo io un lavoro totalmente diverso dal solito: non seguo gare ma la parte di documentazione di Casa Italia. Ormai il nostro lavoro si sta spostando sempre più in questa direzione. L’avvento del digitale ha creato fotografi ad ogni angolo, e allora le aziende cercano persone con occhio per curare i loro marchi in queste grandi manifestazioni. Lo facciamo anche per le partite della nazionale di calcio: il gol non ci interessa, ci servono le esultanze con i banner dietro e poi azioni sempre con tutti i banner.

A che edizione dei Giochi sei arrivato?

Dopo Atlanta, ho fatto Sidney, poi ho saltato Atene perché volevo festeggiare il mio 30mo anniversario di matrimonio: già a Pechino assieme al collega d’agenzia Claudio Villa ho seguito a metà la parte agonistica e a metà Casa Italia. Lo stesso ai Giochi del Mediterraneo. L’agenzia ha scelto me e Claudio per Casa Italia perché siamo quelli con più esperienza in questo tipo di lavoro.

Non è che ti ritengono troppo “vecchio” per rincorrere gli atleti...

Sul discorso fisico e di resistenza c’è poco da stare allegri. Si comincia alle nove e mezzo di mattina e si finisce alle due di notte. Mentre nelle passate edizioni, casa Italia si sviluppava orizzontalmente, questa volta è una struttura verticale su 6 piani e devi continuare a muoverti da un piano all’altro, da terra dove si attendono gli atleti, al quinto dove ci sono i meeting, al terzo dove c’è il ristorante, al primo dove ci sono gli stand degli sponsor, per poi tornare al quinto e così via senza soluzione di continuità e con continui cambiamenti di programma.

Com'è l'organizzazione londinese? Dalla tv sembra un po' fredda: hai la stessa sensazione?

Non posso rispondere a questa domanda perché lavoro e vivo a 30 chilometri dai campi gara. Sono di fianco a Westminster e con alle spalle il Big Ben. L’albergo è a 20 minuti a piedi. I miei colleghi, quando passano da Casa Italia, mi dicono che hanno difficoltà con i trasporti e che per la prima volta, in sala stampa, devono pagarsi anche l’acqua.

C'è qualcosa in particolare che ti ha colpito di questa edizione, nel bene o nel male?

La cerimonia d’apertura è stata mastodontica e mi è piaciuto l’idea dei sei ragazzi che ricevono il testimone dagli atleti e accendono i petali che hanno formato il braciere, un’idea stupenda. Mi avevano detto di controlli feroci e giuro che non ne ho incontrato uno, nemmeno all’aeroporto.

Hai parlato con Francesca Dallapè dopo la delusione della medaglia di legno?

Francesca e Giuliana Aor (l’allenatrice, ndr) erano amareggiate perché sono state derubate del bronzo. I giudici sono stati troppo clementi con le avversarie. Le immagine televisive e le fotografie dimostrano che l’ingresso in acqua delle canadesi era tutto meno che perfetto.

Tu sei ormai un veterano delle Olimpiadi: ci puoi descrivere le sensazioni che si provano ad essere parte di un avvenimento di portata planetaria come questo?

Una sensazione bellissima. Ritrovi vecchi amici, colleghi, atleti delle passate edizioni e alcuni ti riconoscono. Anche tu, con le dovute proporzioni, come gli atleti devi lavorare quattro anni per dimostrare ai responsabili dell’agenzia che meriti la convocazione per questa nuova edizione. Non prendi medaglie ma non puoi sbagliare nulla. ©RIPRODUZIONE RISERVATA













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