Lucillo Merci, il Perlasca trentino che strappò oltre 600 ebrei alla morte

Trento. Morte a Salonicco. O capitano, salvati tu. Il capitano coraggioso è Lucillo Merci di Riva del Garda, classe 1899, quarto dei cinque figli di Giuseppe e Maria Garbari, ufficiale dell’Esercito...



Trento. Morte a Salonicco. O capitano, salvati tu. Il capitano coraggioso è Lucillo Merci di Riva del Garda, classe 1899, quarto dei cinque figli di Giuseppe e Maria Garbari, ufficiale dell’Esercito italiano della Divisione Acqui che, durante le persecuzioni degli ebrei a Salonicco, in Grecia, ha falsificato più di 600 certificati attestanti la cittadinanza o la discendenza italiana: per salvare gli ebrei, non solo italiani, da Auschwitz e dalla morte.

La Gerusalemme dei Balcani.

Salonicco era appellata come la Gerusalemme dei Balcani. Vi vivevano più di 60mila ebrei sefarditi, la maggioranza della popolazione cittadina. Tra loro migliaia di italiani di fede ebraica. Merci arriva nella città greca ai primi di ottobre del ’42, quando è già in corso l’occupazione tedesca. Il console Guelfo Zamboni gli affida il compito di interprete e di ufficiale di collegamento con le autorità militari tedesche. Entrambi sono fascisti, ma non esitano a organizzare un piano per salvare gli ebrei, non solo italiani. Quando arrivano i tedeschi a Salonicco nel ‘41, i nazisti vogliono ripulire la città dagli ebrei. Atene è sotto l’influenza italiana ed è un luogo sicuro per loro. I tedeschi inviano due fra i più terribili ed esperti organizzatori della Soluzione finale. I temibili capitani delle SS Dieter Wisliceny e Alois Brunner: “Abbiamo capito che sono stati mandati per liquidare definitivamente il problema degli ebrei”, scrive sul suo diario il capitano Merci. Capo dell’amministrazione militare tedesca è Max Merten.

Merci rischia la fucilazione.

Merci si mette agli ordini di Zamboni. Forse è l’uomo che rischia di più la vita, se scoperto. Il colloquio fra i due è franco. Zamboni: “Dobbiamo fare di più, dobbiamo portare in salvo tutti gli ebrei italiani. Gli italiani ma non solo…”. Merci risponde: “Sono con lei, signor console, ritengo anch’io che non possiamo stare a guardare”. Anni dopo, Zamboni dirà: “Sapevo bene che i certificati erano falsi. Li rilasciavamo coscientemente a persone che non avevano niente a che fare con la cittadinanza italiana”.

Iniziano le deportazioni.

Ma i tempi più duri debbono ancora venire. Cominciano da febbraio ’43 per protrarsi a tutta l’estate con deportazione di massa, direzione Auschwitz. A fine estate ’43, Salonicco è Judenfrei. Libera da ebrei!

Già nel ’42 agli ebrei viene imposto di cucirsi sui vestiti la stella gialla. Vengono creati tre ghetti: uno è in zona Kalamaria, vicino alla sede del Consolato d’Italia, ma il più importante è in pieno centro, vicino alla stazione, dove partono i convogli della morte. È il ghetto chiamato Baron Hirsch. Per gli ebrei italiani, per ora, nessuna restrizione. Da marzo a maggio ’43 da Salonicco sono deportati 50mila ebrei verso i lager. Merci in quei mesi tiene un diario .

Il diario segreto.

“Non confidai mai a nessuno che tenevo un diario, neppure ai consoli per non comprometterli, compilato di nascosto, di sera, di notte, stanchissimo dopo 12-15 ore di lavoro, innervosito dalla paura di venir scoperto o tradito, malfermo di salute e sotto cura”. La segretaria di Merci, Carolina Capasso, si consuma le dita sulla macchina da scrivere. Il lavoro è frenetico, “è indescrivibile il lavoro che danno a me e alla segretaria”, scrive, “sentire gli interessati, poveretti, esporre le questioni al signor Console, scrivere le lettere ai tedeschi che comandano e con loro discutere ogni caso, tutto ciò assorbe tanto tempo e molta energia. Le mie forze vengono sempre meno, temo per la mia salute. Il lavoro aumenta sempre più e si fa sempre più impegnativo”. Merci tiene i collegamenti con gli aguzzini, “un compito ingrato, in quegli uffici si decidevano le sorti degli ebrei di ogni nazionalità: greci, italiani, spagnoli, portoghesi, svizzeri, argentini”, scriverà dopo la guerra. E annota la sera al buio: “Mi rifiuto di credere che il dott. Merten, assumendosi la responsabilità di fronte dalla Gestapo, non si rendesse conto della facilità e larghezza con cui vengono rilasciati i certificati. Non ha messo mai in dubbio i certificati firmati dal Console; però li accoglie con un sorriso sulle labbra”.

La morte non aspetta.

Il 6 aprile scrive: “Da due settimane prosegue la deportazione degli ebrei greci in Polonia su treni formati da 40 carri bestiame, su ciascuno dei quali vengono pigiate 60 persone di ogni età, uomini, donne, vecchi, giovani e bambini, tutti con la stella di David”. Ogni trasporto è di 2400 persone. “Ne sono già partite circa 20mila”. E chi non sale viene fucilato. I nazisti, infatti, spargono la bugia che andranno a Cracovia, dove saranno accolti calorosamente da ebrei e verranno impiegati in vari lavori. Ma Zamboni e Merci conoscono la loro sorte: la morte!

L’11 aprile la prima tegola sulla comunità italiana: “Ci viene letto il telegramma giunto da Berlino, in cui sta scritto che le donne, sposate ad israeliti greci, sono da considerarsi greche e quindi esse pure devono venir deportate”. È solo l’inizio. Infatti poco dopo: “Il capitano Wisliceny mi notificò – scrive Merci – che anche gli ebrei italiani verranno internati in un campo di concentramento”.

7 maggio: “Continua in Consolato il rilascio di certificati di cittadinanza italiana” e falsa cittadinanza. In giugno il console Zamboni viene richiamato a Roma, lo sostituisce Giuseppe Castruccio. L’opera di salvataggio si consolida e si estende.

Atene: la salvezza.

Arriva il treno della libertà. Giugno-luglio ’43: “Apprendiamo che verso metà giugno tutti gli ebrei italiani verranno trasferiti ad Atene”. Per loro è la salvezza. Però: “Il treno se lo devono procurare gli italiani e pagarselo”. Il console telefona a Roma per ottenere il convoglio. 14 luglio: “Alle ore 6.45 il signor Console dott.Castruccio ed io eravamo alla stazione ferroviaria. Il capitano delle SS Dieter Wisliceny era già là con i suoi uomini. Vedemmo arrivare i partenti”. Il controllo, “ben 323 ne passarono dinanzi guardati dalla Gestapo”. L’ansia dell’attesa sull’ottavo binario si prolunga fino a notte. “Prima di salire, uno per uno nelle carrozze, il controllo lo fece il terribile Vital Hasson, ebreo, terrore del campo di concentramento, che conosceva ogni partente”. Arriva con i suoi stivali lustri, si eccita alla partenza degli ebrei. Gode della loro sorte segnata dalla morte. Ma anche il rabbino capo di Salonicco, Zevi Koretz, non si oppone e non fa nulla per impedire la deportazione.

La fabbrica dei falsi.

Merci ricorda nel diario: “I certificati di cittadinanza rilasciati erano oltre 600, a cui vanno aggiunti i passaporti degli ebrei realmente cittadini italiani da sempre”. Il capitano ammette il grande numero delle falsificazioni e scrive ancora, “gli ebrei italiani o dichiarati tali tentavano la fuga dalla zona tedesca, altri invece si organizzavano e il cav. Emilio Neri del Consolato ne trasportava alcuni a Plata, dove prendevano il treno per Atene. Per maggior sicurezza li accompagnavo di quando in quando. Tenuti in disparte, io e Neri acquistavamo i biglietti ferroviari”. Continua Merci: Molti “venivano dichiarati minorenni, pur essendo maggiorenni, cioè oltre 25 anni di età. Vennero dichiarati italiani perfino ebrei ricercati dalla Gestapo, che coraggiosamente si presentavano in Consolato per chiedere protezione”.

La paura è palpabile, Merci sa che rischia la fucilazione o la deportazione ad Auschwitz: “Non nascondo che in alcuni casi mi tremavano le vene presentando taluni certificati agli uffici tedeschi, indi, ogni volta, l’elenco al campo di concentramento, per prendere in consegna gli ebrei liberati. Roma ha ordinato di aiutare chi ha bisogno di assistenza”, anche gli ebrei spagnoli che “sono 750, tra cui il Console con famiglia. Abbiamo iniziato il rilascio dei certificati di cittadinanza nella stessa maniera, tanto per gli italiani-greci come per spagnoli-italiani. “Ma si verificò una complicazione. Convocato dal console tedesco con il comandante della Gestapo Wisliceny, ci viene detto che il termine utile per la liberazione è scaduto il 15 giugno”. Le SS proseguono impassibili, anche se “la guerra va male per l’Asse”.

Cade Mussolini, lavoro interrotto.

Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio, a Merci e Castruccio viene impedito di proseguire: “Le autorità tedesche hanno respinto le richieste di liberare gli ebrei” e chi è rimasto viene deportato, anche ebrei italiani che non erano ancora partiti. Intanto Merci ritorna in Italia per una licenza, “portando con me” una quarantina di ebrei. “Lungo la ferrovia ad ogni palo del telegrafo-telefono un uomo impiccato. Una lugubre, macabra visione. Accompagnai i miei ospiti fino a Venezia”. Alcuni si dirigono verso Firenze e si salvano, altri proseguono verso Meina, una piccola cittadina sul lago Maggiore.

Prima salvati poi uccisi.

Lì avviene la prima strage di ebrei in Italia. Merci, però, non conosce la loro fine, lo verrà a sapere a guerra finita. Dopo la guerra, infatti, scrive una lettera al Grande albergo Meina, dove alloggiavano gli ebrei, e chiede notizie. La risposta è pietrificante. “Siamo spiacenti di doverla informare che i signori cui fate menzione non sono più in vita. La loro attuale abitazione è il lago Maggiore, dove furono posti con un sasso al collo dalla ferocia SS, amarezza e repulsione per i barbari carnefici”. Tutti annegati. Non vengono risparmiati nemmeno i più piccoli portati da Merci. È il 23 settembre 1943.

Dopo la licenza, Merci fa ritorno a Salonicco. Viene subito arrestato dai tedeschi e rinchiuso, non perché scoperto per la sua attività di falsificazione dei documenti. “Ebbi la possibilità di mandare a dire al Console che mi trovavo prigioniero”. Viene liberato per lavorare per “l’importante colonia italiana che, tolti gli ebrei non più presenti, contava oltre 6mila persone”. “Appresi che il 2 agosto era partito l’ultimo convoglio di ebrei per la Polonia, già internati o rastrellati: tutti gli italiani, i greci, i portoghesi, gli svizzeri, gli egiziani, gli argentini e i 750 spagnoli con il loro console, rifiutati dal generale Franco”. Salonicco è, ormai, una città affamata, dove i bambini piangono tenendo le gonne delle madri, le donne si prostituiscono per un pezzo di pane.

Dalla divisa alla cattedra.

Merci diviene direttore delle scuole italiane. Nel dicembre 1943 il Consolato italiano chiude definitivamente. Tutti rientrano in Italia, così pure Merci. E qui termina il diario. Nel consolato di Villa Olgas ci furono i salvatori degli ebrei di Salonicco. Coraggiosi ma non ancora Giusti.















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