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In Lagercrantz manca il "cuore" politico di Larsson

Anche il secondo sequel della trilogia Millennium resta una (brillantissima) operazione di marketing letterario


Maurizio Di Giangiacomo


Il mio giudizio sull'idea di affidare a David Lagercrantz il sequel della trilogia Millennium dopo la scomparsa di Stieg Larsson lo avevo già espresso all'uscita di Quello che non uccide, quarto episodio della saga di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander. E non cambia. Un'operazione di marketing letterario era (brillantissima, fortunatissima, riuscitissima) e tale rimane anche dopo la pubblicazione - per la seconda volta simultanea in diverse decine di Paesi - de L'uomo che inseguiva la sua ombra.

Lagercrantz si conferma scrittore abilissimo. Il tema - gli abusi commessi in nome della scienza e del progresso dalle autorità mediche nei confronti di coppie di gemelli messi al mondo da genitori in difficoltà come la stessa Lisbeth e la sorella Camilla - il plot, l'incalzare dei colpi di scena, con la verità che prende corpo su due piani temporali differenti in un finale davvero notevole, forse sarebbero piaciuti anche al povero Stieg. Nel secondo e nel terzo episodio della sua trilogia aveva attinto anche lui a piene mani dal passato della più gotica delle hacker, senza però impoverire il ruolo del suo alter ego "Kalle" Blomkvist. Come ha invece fatto in Millennium 5 Lagercrantz, costringendo il giornalista d'inchiesta più famoso di Svezia ad assistere quasi impotente alle nuove disavventure della Salander, inseguita dal suo passato anche dentro un carcere.

Di Larsson non manca solo l'alter ego, ma anche un po' di "cuore", il calore dell'impegno politico che mi aveva fatto appassionare ai tempi di Uomini che odiano le donne, che recensii su queste colonne ben prima dell'esplosione della mania per il giallo scandinavo.

L'uomo che inseguiva la sua ombra
David Lagercrantz
Marsilio, 496 pagine, 21 euro

   













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