Uno stage tra i bimbi del Kenya

L'esperienza di Anna Dal Molin, studentessa di Sociologia: «Emozionante»


Jacopo Tomasi


TRENTO. Uno stage diverso, particolare. È quello che ha vissuto Anna Dal Molin, 25 anni, originaria di Arsiero, un paese in provincia di Vicenza, che vive a Trento da cinque anni per frequentare la facoltà di Sociologia. Dai primi di giugno ad inizio agosto è stata in Kenya ed ha partecipato all'attività del Saint Martin, organizzazione che si occupa di disabili, bambini di strada e persone affette dal virus Hiv.  Un'esperienza significativa, che è andata ben oltre il semplice tirocinio.

«Avevo già fatto tre stage durante la triennale - racconta - e quando ho iniziato il secondo anno della specialistica in "Metodologia e organizzazione dei servizi sociali" per diventare assistente sociale, ho pensato che volevo provare qualcosa di diverso, di più stimolante. Il sogno era quello di andare in Africa, perché credo che operare in questo continente sia la massima realizzazione per un'assistente sociale. Anche in Italia ci sono persone in difficoltà, ma l'Africa è un'altra cosa».

L'opportunità dello stage in Africa l'ha offerta il Saint Martin, organizzazione che opera a Nyahururu, città del Kenya a nord di Nairobi, legata alla Fondazione Fontana Onlus con sede a Ravina. «Conoscevo queste realtà, ho avuto modo di fare alcuni colloqui e ho incontrato uno dei direttori del Saint Martin, Samuel Murage, che si trovava a Trento per un periodo. Tutto è andato per il verso giusto e così ho potuto fare questa bella esperienza».

Facciamo un passo indietro: com'è stato l'arrivo in Kenya?
Sono arrivata il 4 giugno e l'impatto è stato forte. La prima notte ho dormito a Nairobi, dalle suore, poi il giorno seguente sono partita in matatu e arrivata a Nyahururu. Dopo una settimana di ambientamento e conoscenza della struttura, mi sono inserita nel programma Aids.

Il Saint Martin, finanziato per alcune delle sue attività dalla Provincia di Trento, è famoso proprio per il lavoro di comunità. Cosa significa?
Il motto è «solo attraverso la comunità». Oltre agli operatori, infatti, c'è un rapporto diretto coi molti volontari dei villaggi. Spesso si pensa che il volontariato africano in Africa non sia possibile, qui invece è una realtà quotidiana. C'è un grande senso di solidarietà e gli africani sono i veri protagonisti. Non ci sono solo operatori esterni che si occupano dei servizi, ma sono loro in prima persona. Questo permette al progetto di camminare davvero, senza assistenzialismo.

Oltre all'Aids, c'è altro?
I programmi principali sono 5: Aids e dipendenza da alcol e droga, disabilità, diritti umani e nonviolenza, bambini di strada, microcredito.

Questa esperienza cosa le ha dato?
Mi ha riscaldato il cuore e aperto la mente. La mattina mi svegliavo sempre col sorriso, e questo è già molto. Ho imparato tanto sia a livello professionale che umano. C'è una grande attenzione alle relazioni sia tra operatori, che con volontari e utenti. Un rapporto spirituale.

Ora quali sono i suoi obiettivi?
Sto scrivendo la relazione sull'esperienza al Sanit Martin, poi affronterò la tesi per laurearmi. La scriverò sul lavoro sociale svolto con le persone malate di Aids e sul lavoro di comunità.

Ci sarà ancora l'Africa nel suo futuro?
Difficile dirlo, ma spero di tornarci il prima possibile. Sarebbe un sogno continuare a lavorare lì. La vita è essenziale, priva di molte quotidiane superficialità che caratterizzano la vita occidentale. E il lavoro dell'assistente sociale, in quei paesi, è un'altra cosa.













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