il fenomeno

Sharenting, i figli usati sui social come strumento acchiappa-like

In Francia c'è chi vuole mettere dei limiti per legge. La psicologa Serena Valorzi: "Tra le ricadute: comunicazione falsata, scarsa autostima e diffusione illecita di materiali sensibili"


Ilaria Puccini


TRENTO. «Cos'è che ci rende più felici? Condividere in intimità un momento con i nostri bambini, o utilizzarli per raccattare consensi facili da parte di sconosciuti sui social?»

È questo l'invito alla riflessione che Serena Valorzi, psicologa e psicoterapeuta trentina specializzata in nuove dipendenze, rivolge in merito al fenomeno dello “sharenting”. Il termine nasce dall'unione dei temini inglesi to share e parenting, e indica l'attività di condivisione online da parte di genitori e familiari di materiali - immagini, video, storie, dati sensibili - sui propri figli, in ogni fase della crescita. Un flusso costante di informazioni il cui controllo spesso sfugge di mano e si riversa in lidi non controllati. Nell’era dell’identità digitale, il fenomeno ha assunto dimensioni tali che in Francia c’è chi propone di combatterlo a livello legislativo. Ma le ricadute dello sharenting, al di là dei danni d’immagine, per Valorzi sono soprattutto psicologiche.

«Per un genitore, registrare e voler condividere la gioia di un momento particolarmente significativo con il figlio è naturale - spiega - è ciò che una volta si faceva con gli album di fotografie e le registrazioni su videocassetta, che restavano in famiglia e potevano anche diventare un ricordo da far vedere ai figli cresciuti».

Un'abitudine che però, con l'avvento della rete e delle dinamiche del consenso, si è distorto in una continua "vetrinizzazione" di tali momenti. La platea si allarga infatti dalla famiglia ad amici, conoscenti e followers, il cui apprezzamento, espresso in "likes", resta sotto i post come una valutazione di merito irremovibile e concorrente con quella dei post altrui.

«Purtroppo passa il messaggio che se non posto non esisto - spiega Valorzi - e per molti genitori la paura di perdere consensi spinge all'omologazione. Voglio dichiarare la mia gioia al mondo perché mi sembra che questo mi dia valore».

Al contrario, per la psicologa, «questa spinta a pubblicare sulla rete non fa che creare ulteriori pressioni alle madri di bambini piccoli, già esposte in un momento particolarmente fragile come quello post-parto, dove depressione, ansie, paure e incertezze su un cambiamento così importante nella propria vita e sul futuro ("sarò in grado di crescerlo?") sono già comuni».

Per Valorzi, lo sharenting ha due caratteristiche particolarmente dannose che passano sottotraccia.

«La prima è il danno al bambino: se io genitore continuo a frapporre tra me e lui uno schermo di cellulare per riprenderlo, il messaggio che assimilerà è che l'importante non è il momento che stiamo vivendo assieme ma il comunicarlo a tutti. E siccome su internet la tristezza non raccoglie consensi, al bambino arriverà l'insegnamento che per essere accettato dovrà sempre mostrarsi in veste "patinata", che tristezza e insicurezza non sono ammesse».

E qui entra in ballo il secondo danno, quello agli altri genitori: «I social spingono al perfezionismo, e non è purtroppo raro che un genitore ci metta mezz'ora a registrare un video che normalmente avrebbe richiesto trenta secondi, perché dev'essere ineccepibile. Così si è perso del tempo significativo per produrre del materiale che verrà consumato e scartato molto velocemente e che contemporaneamente spingerà gli altri genitori a produrne a propria volta, in un circolo vizioso. Non è detto che tutti stiano vivendo un momento particolarmente gioioso nelle loro vite. Ma traendo una percezione falsata della realtà dalle foto e video di altri bimbi così felici, sani e sorridenti, potrebbero iniziare a dubitare del proprio, pensare che non sia "perfetto" come gli altri».

Ma gli effetti dello sharenting non finiscono qui: «Appena il figlio sarà un po' più grande - continua Valorzi - vedere le foto e filmati da piccoli, dove magari si è sporchi e mezzi svestiti, dati in pasto al pubblico dai genitori in passato, potrebbe creare grosse tensioni».

La conflittualità, in questo caso, va però vista positivamente: «Perché è sintomo che il ragazzo o la ragazza si sono resi conto del potenziale lesivo di tali materiali. Le vere situazioni su cui dobbiamo lavorare sono quelle dove il dare in pasto la propria privacy è normalizzato e non c'è la minima consapevolezza, né da parte dei genitori né da parte dei figli».

Le conseguenze di una mancata educazione digitale possono essere dannose: «Foto e video possono essere trasmessi su canali e siti non controllati, o possono diventare strumento di bullismo e cyberbullismo per i figli. Quanto ai genitori, se il nostro rapporto è stato sempre mediato da un cellulare, con che faccia potremo venire a chiedergli di non esporsi?».

Contrastare questo fenomeno è possibile, spiega Valorzi. Ma chi è più da rieducare, figli o genitori? «Con i ragazzi ci sono più occasioni di riflessione, spesso nelle scuole trentine si portano occasioni formative su questo tema e se si lavora bene, i ragazzi sono molto ricettivi e possono capire con facilità i rischi della condivisione incontrollata, oltretutto per la prima volta ricevono proprio quell'attenzione che con i genitori era mancata. Alla fine, penso che il lavoro più grosso lo dobbiamo fare noi adulti. Se restiamo ben ancorati al momento presente senza farci lusingare dai social, anche i nostri figli cresceranno senza il bisogno di colmare le proprie insicurezze con l’approvazione degli altri».

 













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