Panchià: cent’anni fa la frana che uccise 55 russi

Prigionieri, erano stati mandati in valle di Fiemme dall’impero austroungarico Trattati peggio di animali, lavoravano nelle cave e alla costruzione di strade


di Gilberto Bonani


Sono trascorsi cento anni dalla morte di 55 soldati dell’esercito russo uccisi da una frana in località Venzan di Panchià. Il 19 gennaio 1917 alle 16.30 uno smottamento costituito da neve e terra travolse il gruppo di prigionieri intenti a estrarre ghiaia. «Carri e animali, un buon numero, sono arrivati giù alla baita del Brenzöl. Tutti morti. Scavato fino a giugno per recuperare le salme ancora nella neve e nel materiale» ricordano le memorie scritte da Renata Delladio. I corpi irriconoscibili dei soldati furono sepolti in un piccolo cimitero militare appositamente creato, attiguo a quello del paese, battezzato dai locali “cimitero dei Russi”. Le spoglie in seguito furono riesumate e trasferite. Solo una lapide, fissata sul muro perimetrale del vecchio camposanto, ricordava la loro presenza. Ora non è rimasto più nulla. I lavori di ampliamento eseguiti almeno vent’anni fa hanno cancellato ogni ricordo.

L'unica testimonianza del tragico evento si trova lungo la Statale 48 delle Dolomiti tra Panchià e Tesero. Qui una lapide ricorda genericamente agli automobilisti che 55 lavoratori sono stati travolti da una frana.

Al tempo della Prima guerra mondiale molti furono i prigionieri russi, ungheresi, cecoslovacchi, rumeni, croati, serbi, portati in Fiemme e Fassa per realizzare lavori destinati a rafforzare le linee austro ungariche. Secondo il diritto internazionale avrebbero dovuto partecipare alle attività lavorative solo volontariamente. Invece furono obbligati a eseguire i lavori più duri in condizioni molto difficili. Il primo tracciato della ferrovia Ora – Predazzo destinata, secondo gli intenti dei comandi supremi, a portare i rifornimenti sul fronte del Lagorai, è anche opera loro. Molte delle mulattiere che oggi percorriamo per salire in quota, sono il segno delle loro fatiche. In val San Nicolò (Valle di Fassa) fu realizzato un grande accampamento militare al servizio del fronte di Costabella, e del settore della Marmolada. Nelle baite già esistenti e nelle nuove baracche alloggiavano soldati austro-ungarici dei più svariati reparti: Standschützen di Dornbirn e locali, Landesschützen, Kaiserjäger e truppe della Bosnia Erzegovina, ma anche numerosi prigionieri di guerra venivano utilizzati per il trasporto di materiale e per altri lavori pesanti. Qui appunto si trova una strada che è ancora chiamata “strada dei russi”. Tra i vari compiti dei prigionieri c'era anche quello di portare gli approvvigionamenti in quota quando la neve e il maltempo bloccavano le teleferiche. Di loro accenna nel suo diario l'ufficiale austroungarico Leopold Othmar, combattente sulle montagne di Moena. «Quei poveri diavoli – scrive - affamati com'erano, rubavano tutto ciò che era possibile rubare; arrivavano ad aprire con le unghie lo scatolame contenente cibo. Frugavano come cani nei mucchi dei nostri rifiuti, alla ricerca di qualche osso. Era uno spettacolo pietoso vedere quegli uomini, ridotti a comportarsi come bestie».













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