l'intervista

«Le unioni gay? Non sono la famiglia»

Bregantini: «Rispetto le scelte di ciascuno, ma la legge deve distinguere». «Pannella? Ci insegnò lo sciopero della fame»


di Chiara Bert


TRENTO. «Mai abbassare le vette, che devono restare alte e attraenti». E la vetta, incalza monsignor Giancarlo Bregantini, «è la famiglia», «una mamma e un papà in ogni casa, perché ogni bambino di questo ha bisogno». Poi ci sono le scelte di ciascuno, «chi sono io per giudicare?», ha detto Papa Francesco. «Io rispetto le unioni omosessuali, ma se pongo le due scelte sullo stesso piano no, non sono più educativo», dice il vescovo simbolo della Locride che lotta contro la ’ndrangheta, noneso di Denno da una vita trapiantato nel profondo Sud. Ieri è tornato a Trento ospite del Vigilianum, il nuovo polo culturale della diocesi, per discutere con i giornalisti sul tema «Comunicazione e misericordia si incontreranno?». E non si è sottratto all’attualità politica.

Monsignor Bregantini, lei ha partecipato al Family Day contestando la legge sulle unioni civili. Cosa pensa della legge approvata dal parlamento?

Tacere solo per il fatto che la legge è stata approvata forse è troppo poco, forse bisognava parlare di più prima, distinguere di più tra unioni dello stesso sesso e matrimonio. Qualcosa si è fatto, si è tolta l’adozione, ma si potevano fare due canali. Io ho partecipato al Family Day e ho perso molti amici, ho discusso anche in famiglia, in particolare con delle mie cugine che mi hanno contestato. Lo slogan che ci ha sostenuto in quell’iniziativa è stato: rispetto delle libertà di ciascuno, ma custodia dei valori di tutti.

Dare diritti alle coppie omosessuali cosa toglie agli altri?

Il problema è quando si vuole dare lo stesso valore, mettere le scelte sullo stesso piano. Io rispetto le scelte di ciascuno, ma ciò che mi preoccupa oggi è la poca attrattività della famiglia, non ci si sposa. E io da educatore sento invece il compito di renderla bella e attrattiva, altrimenti si sfalda tutto. Una mamma e un papà, di questo ha bisogno ogni bimbo. Non è possibile avere due papà o due mamme. Mai abbassare le vette, anche se dobbiamo accompagnare il passo faticoso di chi è a valle, non condannare.

Vale anche per i divorziati e i risposati?

Come ha detto Papa Francesco, la questione non è più da codice, posso o non posso fare la comunione. La domanda è rivolta a ciascuno: valuta bene il tuo cammino, hai fatto dei tentativi di riconciliazione?, com’è il tuo partner, come hai educato i tuoi figli? Questa è la complessità ma anche il fascino del tempo presente.

È d’accordo con la Cei che non farà campagna per il referendum per abrogare la legge sulle unioni civili?

Certo. Resta l’amarezza. L’errore è stato non lasciare libero il dibattito, mettere insieme la fiducia al governo con il dibattito sulle unioni civili. Oggi avremmo una legge diversa, e più serena.

Lei ha parlato di verità e libertà nella comunicazione. Come stanno assieme questi due valori?

Per un credente la verità è il fine. Ognuno porta il suo pezzetto di verità e lo mette in sinergia con quello dell’altro. Ben venga il dibattito, anche sui temi etici. Il nemico oggi è l’indifferenza, non chi la pensa in modo diverso. Occorre dire la verità con amore: chiarezza e mitezza. Giudicare i fatti e non le persone, anche se non è facile. Un giornalista deve piantare alberi. Quando si fa cronaca nera, occorre essere misurati, non pensare solo a chi legge ma anche a coloro di cui parliamo negli articoli, lasciando aperta la porta della speranza. Anche quando si dicono cose dure, prestare attenzione agli aggettivi e agli avverbi, che danno il tono della misericordia.

Lei ha conosciuto realtà dove la criminalità è forte e spietata. Cosa pensa di com’è stata raccontata in «Gomorra»?

Non ho mai dialogato di persona con Roberto Saviano ma avendo vissuto 25 anni in Calabria, 14 a Locri, posso dire che Gomorra ha parlato di cose vere. Solo che ai libri di Saviano servirebbe una post-fazione: se questa è la realtà, qual è la risposta, la via d’uscita? Non basta più descrivere, la fatica oggi è uscire dal labirinto. Bisogna raccontare la verità ma farlo con speranza. Che non significa buonismo, ma futuro. Pensare a chi, in quelle terre, magari legge da dietro le sbarre.

La comunicazione è diventata sempre più veloce. Lei che rapporto ha con i social network?

Sono giornalista da quasi vent’anni e scrivo ancora con la mia Olivetti 35. Scrivo molto, mi piace. Uso i cartelloni, la lavagna, metodi antichi e affascinanti. Sulla carta sottolinei, ti fermi, non puoi fare copia-incolla. Ammiro il Papa che fa i tweet, beato chi li sa usare. Solo bisogna stare attenti a non scambiare i mezzi con il fine. Hai letto quel documento?, mi capita di chiedere. L’ho scaricato, mi rispondono.

Oggi ha voluto ringraziare Marco Pannella. Perché?

Ero cappellano in fabbrica a Crotone e un giorno la produzione di un’azienda si fermò perché mancava un permesso. Dissi agli operai: fate uno sciopero della fame. Mi risposero: il primo sei tu. Chiamarono Pannella, che ci diede indicazioni su come si resiste, la sera una bevanda calda con tanti sali minerali. Dopo sei giorni di sciopero il problema burocratico fu superato.

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