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La vittoria più bella di Marcello Osler, "gregario protagonista"

Le volate, la mitica tappa di Sorrento e quella volta che finì in coma in Colombia. "Ma stavolta sembravo spacciato"


di Paolo Mantovan


Marcello Osler è tornato a vivere dopo quasi due mesi di coma lunghi cent'anni di lacrime. Era il 2013. La moglie Elena ogni mattino, là all'ospedale, gli accarezzava la mano perché Marcello le diceva sempre che "un giorno senza che noi due ci stringiamo la mano è un giorno vissuto inutilmente".

Ora Marcello fa passeggiate, ride, brontola, butta lì le sue battute, quel campione delle sorprese di un Marcello. Sì, l'uomo delle sorprese. Già. A Marcello Osler, classe 1945, perginese-mocheno di Canezza (perché se guardate bene il cartello di Canezza vedrete che è già dentro "la valle incantata") sì, a Marcello piace stupire. Ma stupire tanto tanto. Anche perché non ha mai avuto paura di nulla. «Soprattutto finché ho gareggiato coi dilettanti - ci dice nella sua casa di Canezza - non mi fermava niente, non temevo nulla. Battevo anche il Checco. Adesso guarda, sento ancora male alle gambe. Mah».

Vabbé, ma cosa vuoi che sia Marcello? Proprio tu, che eri là, su quel letto d'ospedale, muto e immobile? Quel 31 luglio del 2013 Osler era a fare un giretto in bici, col figlio Riccardo. Erano appena smontati dalla bici per salutare lo zio di Riccardo, quando Marcello è caduto a terra colto da infarto: il cuore non batteva più. La rianimazione sul posto, la corsa all'ospedale. «E poi due mesi di calvario, credendo ogni giorno che fosse l'ultimo. Mi hanno detto che era spacciato. Dopo i primi momenti sono tornata a casa e ho stirato il suo abito bello, convinta dovesse servirgli di lì a poco...» ricorda Elena che ora è come un sorriso senza sosta, lì accanto al suo Marcello.

Per la verità Osler non era la prima volta che finiva in coma. Nel 1970 da dilettante andò al Giro della Colombia con la squadra azzurra. «Bogotà è a 2600 metri. Correvamo sempre in quota, non avevamo fiato. A un certo punto vanno in fuga quattro o cinque sudamericani, ma io non mi perdo d'animo. In salita mi scappate, ma poi vi riprendo in discesa, dico fra me e me. E in discesa giù come una freccia, ma è una strada bianca, a un certo punto si stringe non la tengo più e vado fuori. E con la testa batto contro un sasso». Tre giorni di coma. Il primo coma. «Sì, sai che dicono che sei a un passo dalla morte, no? Beh, io di quella volta che ho battuto la testa ricordo musica, colori, profumi. Ah che bello... Di quest'ultima volta invece non ricordo proprio nulla, solo buio. La prossima vedem».

Marcello Osler non è che voleva fare il ciclista, ma ciclista ci è diventato. «Volevo fare l'intagliatore. È stato mio fratello Armando a passarmi la voglia di bici. Aveva due anni più di me, era all'alberghiero e a 17 anni andò a fare il cuoco alle Olimpiadi di Roma. Era entusiasta. Quando lavorava a Venezia il giorno di riposo saliva fin qua in bici per dirmi che dovevo correre». Marcello inforca la bicicletta e non la lascia più. Vince, perde, riesce a gestire le salite, vince le volate, una volta arriva secondo con i mocassini («eh, avevo lasciato a casa le scarpette...»), e poi va in fuga. Lui va sempre in fuga. Ma quando gli propongono di fare il professionista lui scuote la testa. E poi? «Vuoi sapere come è andata? Nel 1969 avevo già deciso di smettere. Arrivano in delegazione da Reggio Emilia. Mi vogliono convincere. Io dico no e poi no. Ma uno degli sponsor prende un assegno, lo stacca e me lo mette davanti al naso: c'è scritto un milione. A quei tempi un operaio prendeva 65 mila lire al mese. Mi dice: pensaci, se lo riscuoti e inizi ad allenarti vuol dire che ci stai. Io vado da papà che guarda l'assegno, si rabbuia, poi severo mi fa: beh, se hai perso già tre-quattro anni con la bici, puoi perderne anche un altro».

Marcello non smette più. E anche se ha davanti quel monumento del Checco Moser, lui va forte fortissimo. Nel '73, dopo la delusione della "non convocazione" alle Olimpiadi di Monaco 1972, diventa professionista, un gregario di lusso, di quelli che ti portano De Vlaeminck e De Muynck fino al traguardo. «Che poi "il treno" per le volate l'abbiamo inventato noi della Brooklyn: il primo ero io e l'ultimo, quello davanti al capitano, era il Gualazzini». Ah il Gualazzini, l'Ercole Gualazzini, che compagno di avventure! Come quella volta che al giro delle Fiandre erano rimasti tagliati fuori perdendosi nella nebbia. E decisero di andare al treno per raggiungere la squadra: cercavano insieme la gare, la stazione, e il Gualazzini che masticava un po' di francese chiedeva alla gente: "Pour la guerre s'il vous plait». Ma tutti spalancavano gli occhi e si ritraevano davanti a questi due zozzoni pieni di fango che cercavano la guerra. «Io alla Brooklyn ci sarei rimasto per sempre» ricorda con un pizzico di nostalgia Osler. Anche perché lì c'era proprio uno squadrone che viveva insieme. E lui amava la goliardia, la vita di gruppo, amava la Parigi-Roubaix («una volta diciassettesimo, primo degli italiani: sì, primo degli italiani dopo il campionissimo Moser, ovvio!»), amava vivere le gare della vita insieme agli altri, lì, dove tutti erano gregari e campioni, campioni e gregari, lì stava come un re.

E il re di Canezza l'impresa la fece nel 1975 alla Potenza-Sorrento, la tappa del Giro dove diede a tutti un distacco enorme, dove il mitico Francisco Galdos gli disse: "Tu non sei un corridore, usted es un motor", la Gazzetta dello Sport gli dedicò tutta la prima pagina.

Una di quelle tappe che bisognerebbe raccontarle di nuovo come una favola per ragazzi, per chi ha voglia di sognare che la vita è bellissima anche e soprattutto per un gregario. Sì, ma che gregario. Uno che va in fuga sempre. Anche quando sembra non abbia scampo.

Così Elena Leonardelli, la moglie di Marcello, ha scritto un libro bellissimo. Ricco di speranza, la speranza che non vuole piegarsi davanti all'ineluttabile. E che alla fine si chiede se ci sia davvero una linea di confine fra vita e morte... Il libro s'intitola "La fuga più lunga". L'ho letto ieri tutto d'un fiato. E ho sentito scorrere le lacrime. Che alla fine diventano il sorriso di Elena. «Quando Marcello finalmente stava bene, ma era ancor lì all'ospedale, incontrando un medico che lo seguiva gli ho detto scherzando: dottore, porto sempre con me una borsetta molto pesante, perché ho paura che per la felicità io possa prendere il volo come i palloncini della Fiera di San Giuseppe». Vola Elena, vola con Marcello.













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