«Io, senza dimora, gestirò il dormitorio e ne farò una casa»

Fabien, camerunense arrivato in barcone a Lampedusa grazie a un corso è diventato Hope, un “homeless alla pari”


di Luca Marognoli


TRENTO. Due anni fa era un senza dimora, oggi è un Hope, termine che sta per “homeless peer”, un “barbone” alla pari. Ieri sbarcava a Lampedusa con uno dei barconi della speranza - così vicina alla disperazione delle morti in mare -, oggi avrà la responsabilità di gestire lui uno dei dormitori dove andava a cercare un letto caldo. Con l’obiettivo di trasformarlo da dormitorio in una casa, da sentire almeno un po’ come la propria.

Casa sua, quella vera, Fabien Njouokou, 27 anni, l’ha lasciata in Camerun. Arrivato in Italia ha chiesto asilo politico «per motivi religiosi», dice senza addentrarsi troppo nella sua vita “vecchia”. A vederlo ha tutto meno che l’aria del barbone: giubbotto sportivo, barba rasata di fresco e un sorriso che fa intravedere quella che deve essere per lui la speranza, “hope”, di una vita nuova. Assieme ad altri sette ex homeless (ma altri tre sono in formazione) è stato scelto per interpretare una figura che ha l’incarico di facilitare il passaggio da un’assistenza di tipo emergenziale, legata a rispondere ai bisogni immediati di dare un tetto a chi rischia di morire su una panchina a meno dieci, ad un accoglienza più strutturata e umana, dove si crei un’appartenenza al gruppo residente (anche se solo per la notte) e una corresponsabilità nella gestione delle faccende domestiche. La grande novità di quest’anno nell’accoglienza invernale a Trento è, infatti, la decisione di trasformare due delle strutture ricettive in permanenti, attive cioè 12 mesi, e di renderle più accoglienti. Si tratta di Casa Briamasco (14 posti letto), gestita da Opera Bonomelli assieme a Fondazione Comunità solidale, e Casa Orlando (18 posti), sotto la responsabilità di Villa Sant’Ignazio. Gli ospiti non cambieranno da una sera all’altra e non verranno più costretti ad andarsene (finendo inevitabilmente in un’altra struttura perché da qualche parte bisogna pure dormire) dopo 30 giorni: avranno a disposizione tre mesi. Un tempo relativamente lungo, in cui condividere esperienze. E immaginarsi persone diverse, libere di determinare il proprio destino. «L’Hope è una persona che ha esperienza perché ha vissuto sulla strada», ha raccontato ieri Fabien nel silenzio attento dei partecipanti alla conferenza stampa di presentazione del piano di accoglienza del Comune e degli enti coinvolti. «L’inverno scorso abbiamo fatto un corso con il servizio di salute mentale (da qui l’approccio tipico improntato al “fareassieme”, ndr) per accogliere gli adulti con problematiche varie. É durato tre mesi, poi c’è stato un tirocinio in dormitorio, dove dovevamo accogliere le persone alla porta e gestire alcuni conflitti nelle stanze. Dopo l’emergenza freddo, abbiamo deciso di provare a gestire un dormitorio noi: ci siamo seduti assieme e ne abbiamo parlato. La prima cosa che abbiamo fatto è stata di cambiare il nome: da dormitorio a “casa”. L’abbiamo chiamata Orlando, per ricordare una persona che non c’è più. Siamo passati dall’avere delle regole, che comportano punizioni, a “indicazioni di comportamento”: se qualcosa non va ne parliamo coinvolgendo anche chi ha sbagliato. Ma abbiamo visto che il regolamento non serviva: tutti siamo adulti e abbiamo cercato di vivere la casa non come un dormitorio o un albergo ma come fanno in una famiglia». Non è stato così facile fare entrare gli ospiti in questa nuova ottica. «All’inizio arrivavano alle 10 di sera e andavano subito a dormire, ma con il tempo siamo riusciti a farli partecipare alle pulizie e anche alle attività che facevamo: giochi di carte, scacchi, la visione della tv.... Ho avuto anche il privilegio di andare all’appuntamento nazionale di Torino, due giorni fa, sugli Hope. Questo è un buon modello da portare avanti: da noi non ci sono operatori, siamo tutti uguali. Ringrazio il Comune, Villa Sant’Ignazio e tutte le persone senza fissa dimora».

Padre Alberto Remondini, di Villa Sant’Ignazio, ci crede. Parla di un «luogo dove persone che sono molto vicine a noi per storie e percorsi, si incontrano per riflettere sul senso e l’orizzonte in cui viviamo. Un’operazione che è anche culturale, politica e di pensiero. Questa è la sfida che ci poniamo, in modo concreto: vivendo insieme, in una casa».













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