De Mauro: «La poca istruzione frena lo sviluppo economico»

Con insegnanti e mezzi adeguati si possono portare avanti tutti con un’elevata qualità dei risultati


Silvano Bert


Professor De Mauro, lei è uno studioso della lingua, di pedagogia, di didattica. E’ stato ministro della Pubblica Istruzione. E’ vero che la nostra si definisce società, anzi economia, della conoscenza, ma la sua presenza a questo Festival è per molti una sorpresa.

Qual è la “barriera dell’istruzione”, che è il titolo della sua relazione?
«Mi permetta una precisazione per la pedagogia. Sono stato molto legato ad Aldo Visalberghi e Maria Corda Costa, grandi studiosi di educazione, poi a loro allievi come Benedetto Vertecchi e Piero Lucisano. Da loro ho imparato quel po’ che so di scienze dell’educazione, di misurazione e valutazione dei processi educativi, ma sempre nella mia parte di linguista. Pedagogista non ho saputo mai diventare. Quanto alla didattica, a parte cinquant’anni tondi di insegnamento a vario titolo nelle università, anche il mio rapporto con la didattica nelle scuole dell’infanzia e di base e un po’ nelle superiori è stato indiretto, mediato dalla collaborazione con gli e le insegnanti del Movimento di Cooperazione Educativa e soprattutto del Cidi, il Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti. Ma in molte scuole, per vedere da dentro che succedeva, col permesso degli insegnanti, sono entrato soprattutto da ministro. La mia presenza sarebbe una sorpresa in un Festival di letterati o di storici o di giuristi. Lo è meno o per niente tra gli economisti. E’ una tradizione antica l’attenzione di grandi economisti per la dimensione della cultura intellettuale e del linguaggio, da Adam Smith (era professore di retorica) al nostro Cattaneo, secondo il quale le idee, lo studio sono “a capo della produzione”. Quando Gramsci cinquant’anni fa e Paolo Sylos Labini trent’anni fa riproposero questi temi forse erano isolati. Ma poi in tutto il mondo l’analisi economica ha portato molti economisti a studiare le condizioni di cultura e istruzione entro cui sorgono e si sviluppano produzione e consumi. E sono parecchi tra di loro a mostrare analiticamente che bassi o mancanti livelli di istruzione e capacità di comunicazione e comprensione bloccano lo sviluppo economico di una società».

Anche don Lorenzo Milani agì per abbattere le barriere nell’istruzione. Nel suo insegnamento dava grande importanza all’etimologia. Qual è l’origine delle parole “economia” e “istruzione”?
«Oikonomìa è una antica parola greca: aveva voluto dire all’inizio “amministrazione della casa, della famiglia”, ma già nei testi greci di età ellenistica si parla di oikonomìa katà tèn pòlin e di politikè oikonomìa, cioè di amministrazione della Città, nel senso greco di Stato. Per il tramite del latino medievale e moderno, attraverso la viva latinità delle scuole e delle culture europee della prima età moderna, la parola è entrata nelle lingue europee col valore generale che oggi ha. Anche istruzione ci riporta al latino. Instruere volle dire “costruire, progettare”, la instructio delle persone è anzitutto questo: dar loro gli strumenti per costruirsi un progetto di vita e per realizzarlo. Don Milani da cattolico rigoroso, ritenne che la stessa predicazione evangelica girasse a vuoto senza saldarsi a un processo di instructio, di crescita culturale delle persone. I suoi scritti, come “Esperienze pastorali”, e quelli collettivi dei suoi allievi di Barbiana, come la “Lettera a una professoressa”, sono tuttora inquietanti per il quieto vivere di troppi, e non solo in Italia».

Infatti il 66 per cento della popolazione adulta in Italia oggi non è ancora nella condizione di leggere sul giornale questo nostro colloquio. Traggo il dato dal suo saggio “La cultura degli italiani”.
«L’indagine venne avviata nel 1999 e si concluse nel 2001. Fu resa pubblica, ma senza eco. E’ stata rifatta da capo nel 2005 e pubblicata nel 2006 dall’Invalsi, col meritorio contributo di quattro regioni e della provincia di Trento. Per l’Italia la conclusione degli esperti internazionali è ancora più drastica. Dati alla mano essi ritengono che solo il 20% della popolazione italiana tra i 14 e i 65 anni abbia gli strumenti conoscitivi e operativi necessari a vivere in una contemporanea società industriale o, come si ama dire, postindustriale. Certo che alle spalle di questi dati c’è una lunga storia del nostro paese. Una storia di miopi gruppi dirigenti preunitari e postunitari che hanno avuto paura di investire nell’istruzione di tutte e tutti».

Tuttavia, ogni volta che si eleva l’obbligo scolastico, e si incentiva l’iscrizione all’università, da molti si teme l’invasione di una nuova ondata di barbari. Non tutti sono nati per studiare, si ripete. La riforma della scuola è questione di contenuti o, come dice Edgar Morin, di una testa ben fatta?
«Credo che Morin abbia ragione nel suo richiamo, utile perché di autore recente e straniero. Ma la stessa indicazione noi potremmo ricavarla da Giuseppe Lombardo Radice, da Gramsci e da don Milani. No, se si dota la scuola di mezzi adeguati e se si dotano di un’adeguata formazione gli insegnanti all’inizio e durante la vita, non c’è nessuna incompatibilità tra portare avanti, in alto, tutte e tutti, “non uno di meno”, e una elevata qualità dei risultati complessivi. Ma i due “se” sono condizioni necessarie».

Lei è uno studioso delle minoranze linguistiche. La Regione Trentino-Alto Adige ha una storia particolare, che non ha eguali in Italia. Vi si parlano la lingua italiana, la tedesca, anche quella ladina. Come ha agito la Repubblica nel governare queste diversità?
«I padri costituenti ci hanno dato, anche per questo aspetto, una splendida Costituzione, sulla eguaglianza da costruire oltre le diversità di sesso, di religione e di lingua e sul dovere della Repubblica di promuovere i diritti delle minoranze. Ma sono stati necessari cinquantuno anni perché finalmente il Parlamento si decidesse a onorare l’indicazione della Costituzione del 1948 e soddisfacesse i ripetuti richiami all’ordine dell’Unione Europea dotandoci di una legge organica in questa materia. La legge è bruttina, ma è meglio di niente. E in molte aree del paese, dalla Sardegna all’area greca del Salento, sta dando effetti positivi».

Un impegno che oggi deve estendersi alle bambine e ai bambini di origine straniera. Per i quali la lingua è strumento fondamentale. Recentemente Michele Loporcaro, invitato dalla Facoltà di Lettere, ha presentato a Trento il libro “Cattive notizie” sui mass-media italiani. Stroncati per i contenuti e per la lingua che usano. Ma nel mirino è finito anche lei, accusato perché, con l’”ideologia della chiarezza”, ha spinto i giornali, le televisioni, e la scuola a una “semplificazione dei concetti”. Come si difende?
«Non mi difendo affatto. Il mio buon collega Loporcaro è arrivato buon ultimo a quella critica dell’informazione che avevamo avviato già negli anni sessanta con tanti, come Mario Isnenghi, Umberto Eco, Maurizio Dardano o Italo Calvino. E don Milani. In quelle critiche di allora o di oggi non chiedevamo semplificazione, ma semplicità, nitidezza, cioè approfondimento e rigore nel dare e per dare informazioni precise. Purtroppo gran parte del nostro sistema informativo è restato immune da questa richiesta. Il mio animoso collega fa un po’ un’insalata russa, mescola alle critiche al sistema informativo critiche a quelle che sarebbero secondo lui le idee di scuola di Raffaele Simone e mie e al fatto che queste idee sarebbero diventate patrimonio comune delle nostre scuole abbassandone il livello. Per quanto mi riguarda le idee di scuola sono consegnate a un testo che si chiama “Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica”. Chi lo conosce sa che vi si chiede un balzo in alto delle conoscenze linguistiche di tutti gli insegnanti perché possano guidare a un più alto livello le capacità linguistiche degli allievi. Ma chi conosce quel testo, che ne pratica le indicazioni? A distanza di decenni si sono fatte ripetute indagini tra gli insegnanti e non più del 20% si ispira a quelle indicazioni».

E’ già stato a Trento in qualche altra occasione? Che impressione si è fatto della città, di questa provincia autonoma?
«Varie volte, su invito di colleghi dell’Università, come Emanuele Banfi, e per convegni della società linguistica e del Cidi. Mi pare un bel biglietto da visita che la Provincia, unica tra tutte, abbia voluto unirsi alle Regioni Campania, Lombardia, Piemonte e Toscana, per realizzare l’indagine su alfabetizzazione e abilità per la vita».













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