alpinismo

Barmasse e la prima assoluta sul Numbur Peak: «Un’ascensione thriller»

Il forte rocciatore valdostano ha conquistato, in stile alpino, fra ghiaccio e neve, la vetta di 6.958 metri, in Nepal, insieme al tedesco Felix Berg e al polacco Adam Bielecki. «Abbiamo dovuto affrontare condizioni dure e imprevedibili: un bivacco a 6900 metri, senza tenda né sacco a pelo, con -25° e raffiche di vento fino a 60 km/h». Da qui il nome dato alla nuova via: “Nepali Ice SPA”

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«Nepali Ice SPA»: è stata chiamata così la prima salita assoluta della parete sud del Numbur Peak (6.958 metri), in stile alpino, nella valle di Rolwaling, in Nepal, realizzata dall'alpinista valdostano Hervé Barmasse, insieme al tedesco Felix Berg e al polacco Adam Bielecki.

La cordata ha affrontato difficoltà valutate in 'Estremamente Difficile meno' o 'ghiaccio verticale' e 'misto roccia/ghiaccio'.

L'ascensione, impegnativa e ricca di imprevisti, ha richiesto un bivacco a 6900 metri, senza tenda né sacco a pelo, a -25 °C e con raffiche di vento fino a 60 chilometri orari. La cordata ha raggiunto la vetta del Numbur il 19 ottobre.

«Una scalata impegnativa, valutata ED- (Estremamente Difficile meno) con passaggi fino a VI, WI5 (ghiaccio verticale) e M4 (misto roccia/ghiaccio).

Abbiamo dovuto affrontare condizioni dure e imprevedibili: un bivacco a 6900 metri, senza tenda né sacco a pelo, con -25 °C e raffiche di vento fino a 60 km/h», scrive su Instagram lo stesso Hervé Barmasse .

«Da quell’esperienza estrema - ha aggiunto - è nato il nome della nuova via: “Nepali Ice SPA”.

Il 19 ottobre abbiamo raggiunto la vetta del Numbur (6.958 m).

Un’avventura intensa, tecnica e umanamente profonda, che porterò con me per sempre.

È stata una salita a dir poco rocambolesca. Arrivati all’attacco della parete, Adam non stava bene: vomito, debolezza, mancanza di forze. Ci guarda e ci invita ad andare avanti senza di lui. Felix risponde: "Siamo una squadra, proviamoci assieme, se le cose non funzionano possiamo sempre tornare indietro e provare nei prossimi giorni".

"Grazie ragazzi." La voce di Adam taglia l’aria, decisa. Nella prima parte della parete seguiamo la linea più logica, quella già tentata dal team catalano nel 2016. La scalata, fantastica, si snoda lungo una sequenza di cascate di ghiaccio spettacolari.

Poi, presto, l’incanto lascia spazio all’inquietudine: scariche di ghiaccio e pietre iniziano a piovere dall’alto, mettendo seriamente in dubbio la nostra incolumità. Decidiamo di abbandonare la linea tentata dai catalani per un percorso più diretto, più difficile, più incerto.

È allora che una pietra, per mia grande fortuna, sceglie di colpire la mia spalla invece della mia testa. Il dolore è forte, ma tornare indietro, sotto quelle scariche, sarebbe ancora più rischioso. Andiamo avanti.

Da lì in poi, metro dopo metro, la via diventa sempre più interessante, estetica, imprevedibile. 

Le difficoltà della scalata ci entusiasmano sino a quando, negli ultimi duecento metri, salire significa letteralmente nuotare nella neve inconsistente, senza possibilità di proteggersi.

Rallentiamo, rischiamo, consapevoli che un passo falso significherebbe precipitare fino alla base della parete in pochi secondi. Raggiungiamo i 6900 metri. Da lì, è impossibile ignorare la voce della vetta che ci chiama. Ma è tardi.

Ci spostiamo sotto una cornice di neve e decidiamo di bivaccare: senza tenda, senza sacco a pelo, senza cibo. Adam ha con sé un telo d’emergenza sotto il quale ci ripariamo, seduti, coprendoci volto e piedi. All’inizio scherziamo, ridiamo fiduciosi.

Poi il vento si alza, le raffiche toccano i 60 km/h, la temperatura scende rapidamente a -25°C. Il silenzio cala.

Restiamo concentrati su un unico pensiero: sopravvivere. Evitare il congelamento, resistere al freddo, passare la notte. Per me, senza dubbio, la più difficile da quando scalo. Le ore sembrano infinite. Ci abbracciamo per scaldarci. Adam resiste. Io e Felix, di tanto in tanto, abbozziamo una battuta: la felicità, dicono, scalda il cuore. All’alba ci guardiamo: siamo vivi. Nessun congelamento. Stiamo bene.

Ora dobbiamo decidere: trasformare tutto questo in un “bel tentativo” o portare a termine la prima salita in stile alpino della parete sud del Numbur.

L’alpinismo ci insegna: testa, sempre testa. La vetta ci accoglie. Siamo felici.

È stata un’ascensione “thriller”, tecnicamente splendida, umanamente profonda.

Un’esperienza in cui, per ore, abbiamo messo alla prova la nostra resilienza e la nostra resistenza al dolore, al gelo. Tecnicamente, si può anche essere pronti per salire qualsiasi cosa. Ma per un’avventura così, non lo si è mai abbastanza.

Alla fine, quello che resta è ciò che senti dentro: la passione per la vita e la consapevolezza che le scalate più difficili trasformano la vetta in un dettaglio, mentre sopravvivere agli elementi è la vera impresa

Un rigraziamento particolare a Summit Climb per la collaborazione», conclude il forte alpinista valdostano. 

[foto credits: Instagram Hervé Barmasse]













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