30 ANNI DOPO 

Chernobyl, quando la nube arrivò sopra il Trentino

Aldo Valentini, fisico sanitario, era nella “Commissione anti rischi” «Ricordo quei giorni, frenetici. Facevo misurazioni con picchi altissimi»


di Paolo Mantovan


TRENTO. Quando a Chernobyl ci fu l’esplosione il mondo dormiva. Era notte: ore 1, 23 minuti e 44 secondi del 26 aprile 1986. Trent’anni fa.

Il 26 aprile Aldo Valentini compie gli anni. E quindi ricorda perfettamente anche quella giornata di trent’anni fa. «Era un sabato, un sabato “normale”, che passai a casa dopo una settimana di lavoro». Aldo Valentini era da sette anni l’unico fisico sanitario dell’ospedale Santa Chiara di Trento. Poi divenne il direttore (e lo è tuttora) del Servizio di fisica sanitaria, che comprende una decina di operatori. Quando Chernobyl bruciò liberando una gigantesca quantità di sostanze radioattive, gli strumenti di misurazione e le persone qualificate per comprendere cosa stesse accadendo erano pochi. «Io sono un fisico esperto di radiazioni ma non sono un esperto di nucleare» mette in chiaro Valentini, «però mi sono reso conto, sia in quei giorni sia col senno di poi, che allora non c’era nessuno che potesse comprendere o prevedere davvero che cosa stava avvenendo. Eravamo tutti impreparati. Tutto il mondo era impreparato».

L’incendio prosegue. La nube tossica si espande. In Finlandia il giorno dopo viene registrata una concentrazione anomala di radioattività nell’aria. Il 28 aprile anche in Svezia. E infine osservando le immagini raccolte da un satellite si individua il centro del disastro nell’area della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, allora Urss, a 110 chilometri a nord di Kjev.

Ora, trent’anni dopo, sappiamo dire che eredità abbiamo ricevuto? Per quel che riguarda i danni, tanto per cominciare. E per tutti gli insegnamenti che una vicenda del genere porta con sé. «Certo, alcune cose possiamo ben dirle ora» dice Valentini. Non solo sull’esplosione vera, ma anche sull’esplosione «mediatica». Perché l’esplosione mediatica, avviene soltanto il 29 aprile, e la nube tossica raggiunge l’Italia settentrionale e il Nordest (in particolare proprio il Trentino) dal 30 aprile.

La nube.

«Il primo maggio di quel 1986, con l’amico Fausto - torna a ricordare Valentini - vado a fare un giro di sci escursionismo al Verdè, alpe del Monte Peller, sopra a Cles. È una salita facile: ci interessava raggiungere il bivacco Sat che era stato interessato da una valanga. Lo troviamo distrutto. Ma la cosa che più mi è rimasta impressa è che la giornata è stata segnata da una leggera pioggerella continua. Abbiamo sicuramente inalato una grande quantità di radioisotopi. La pioggia che, a volte anche con violenti scrosci, ha continuato per diversi giorni è stata la concausa dell’elevata concentrazione di radionuclidi depositati sul nostro territorio. L’immissione di radionuclidi in atmosfera da parte del reattore continuò in maniera crescente fino al 10 maggio poi cominciò a diminuire». Diminuì perché fu domato l’incendio.

La pioggia.

«Ricordo anche che in quei giorni dovevo andare a Bolzano per lavoro e che lungo il tragitto si poteva essere interessati da più scrosci di pioggia, a volte violenti, e che l’unica azione che potevo fare per proteggermi dall’inalazione della radioattività che la pioggia portava con sé era di tenere l’aerazione dell’automobile chiusa (sapevo che non era una grande soluzione, comunque piuttosto che niente…)».

I danni.

La pioggia fa cadere al suolo la polvere radioattiva e contamina nuove aree. Quanto è stata rilevante quest’azione? E quanto ha influito sul Trentino?

«È difficile, anzi, è quasi impossibile dare risposte precise» spiega Valentini. «Certo è che rispetto ai danni stocastici (o più semplicemente probabilistici) va detto che si tratta dell’esposizione all’inquinamento della nube (e non l’esposizione diretta a dosi elevate delle radiazioni ionizzanti, come invece avvenne per coloro che andarono a spegnere l’incendio del reattore di Chernobyl) e che chiaramente ci sono stati anche se notevolmente affievoliti dalle tante precauzioni che sono state prese in quei giorni. Però è difficile dare delle misure».

Ma il Trentino ha subito più di altri territori questi effetti? Si può dire che la quantità di tumori sia aumentata a causa del passaggio della nube di Chernobyl? «Il Trentino ha subito effetti come altre regioni del Nordest e dell’Italia nordoccidentale. Però non si può essere precisi perché, per esempio, proprio mentre passava la nube, è piovuto di più in un luogo piuttosto che in un altro. E questo cambia molto. Bisognerebbe valutare istante per istante la contaminazione radioattiva sul territorio portata dai venti e poi depositata dalla pioggia. Epoi l’esposizione delle singole persone. E le loro reazioni a livello di Dna».

La Commissione.

In quei giorni Valentini raccoglie dati in continuazione. Va a far parte - come esperto qualificato - della Commissione provinciale per la protezione sanitaria della popolazione contro i rischi da radiazioni ionizzanti. La Commissione è presieduta dal medico provinciale, che allora era Alberto Tomasi. È quello l’organismo che raccoglie campioni, fa le misurazioni e decide quali precauzioni prendere per la popolazione provinciale.

Le misurazioni.

«Quando abbiamo misurato i primi campioni - racconta Valentini - lo spettro che si otteneva era impressionante: decine e decine di picchi. Inizialmente non ci capivamo niente! Poi piano piano siamo riusciti a discriminare i vari isotopi presenti. Oltre al Cesio 137 (Cs-137), Cesio 134 (Cs-134), lo Iodio 131 (I-131), si trovava però anche la presenza di altri radioisotopi di cui nessuno parlava: Iodio 132 (I-132), Cerio 134 (Ce-134), Bario 140 (Ba-140/La-140), Zirconio 95 (Zr-95/Nb-95) ed isotopi con massa atomica nel range 130 – 140, e soprattutto elevate attività di Tellurio 132 (Te-132)».

Il potere.

C’erano elementi di cui nessuno parlava? «Quando seguivo qualche discussione in Tv o sui giornali e si facevano delle valutazioni di dose efficace (ovvero del rischio di induzione di tumori) non ho mai osservato una valutazione che tenesse conto dei radioisotopi maggiormente presenti e non solo dei più noti (Cs-137, I-131, Cs-134). Le stime che provavo a calcolare io erano sempre più alte (molto più alte)». Questa è una cosa che ha molto colpito Valentini. «Certo che sì. C’erano dei grandi esperti che vedevo in Tv: erano dei prof, dei mostri sacri. Dicevano che c’erano dei rischi ma che la situazione non era grave: un po’ di iodio, certo, e di cesio. E io mi chiedevo: sono io che non capisco bene o sono loro? In quel momento ti accorgi che ti scontri con il potere». Il potere? «Sì, il potere ha una visione diversa dalla persona qualunque. Tende a tranquillizzare per controllare. Perché anche i prof avrebbero dovuto dire certe cose eppure non le dicevano».

Ma in quel momento tutti si divisero fra apocalittici o integrati, come spesso avviene in momenti così drammatici, o bianchi o neri, no? «Sì. Io mi sentivo in mezzo fra guelfi e ghibellini. Ed era praticamente impossibile mediare: la popolazione era di fronte allo scontro fra due posizioni ed era molto difficile capire a chi credere».

Le contromisure.

Però la Commissione provinciale in quei giorni riesce a dare informazioni molto importanti e a promuovere dei comportamenti di tutela. «Sì - spiega Valentini - io credo sia stato fatto tanto. Pensiamo di aver ridotto della metà i rischi. Si lavarono le strade di Trento durante la notte, per portar via più polvere possibile. Si consigliò non far giocare i bimbi all’esterno di scuole e asili per 15 giorni, di togliere le scarpe e cambiarsi prima di entrare in casa, di lavarsi subito le mani, per evitare di portare contaminazione in casa. All’aeroporto venne portata una montagna di filtri dell’aria condizionata che trattenevano materiale contaminato».

Il latte.

«Il vero problema, in questi casi, è l’alimentazione, perché può prolungare nel tempo il rischio di contaminazione. E oltre alle verdure a foglia larga, il vero punto dolente era il latte. Perché di quello si fa molto consumo, perché riguarda soprattutto i bambini, e perché, per la sua catena produttiva, è l’alimento con maggior concentrazione di taluni radioisotopi. Abbiamo consigliato subito - ricorda Valentini - di usare latte a lunga conservazione prodotto prima del disastro di Chernobyl. E poi è stato acquistato del fieno proveniente dalla Pianura Padana per alimentare le mucche. Ovviamente doveva trattarsi di fieno non contaminato. Ma lì ci fu qualche problema».

E a distanza di 30 anni?

«La lezione che abbiamo avuto è molto semplice: io e quelli che hanno lavorato con me in quei giorni, avevamo già dei dubbi sul nucleare. La vicenda di Chernobyl ha solo rinforzato i dubbi. L’esplosione è stata provocata da gravi errori umani, di preparazione e di valutazione, ma anche dalla necessità di forzare per ottenere plutonio, utilizzato per scopi militari. E al nucleare, in definitiva, si sono rivolti tutti gli Stati che poi hanno messo in mostra le armi atomiche. Come una rivoltella da poggiare sul tavolo dei rapporti internazionali. E più passa il tempo, più questa visione mi si conferma davanti agli occhi».













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