l’intervista

Arisi: “I punti nascita con pochi parti mettono a rischio la salute delle donne”

L’ex primario del Santa Chiara è categorico nel respingere quella che chiama una “visione romantica del parto”. E avvisa: “Il dramma è dietro l’angolo e in quei casi a pagare sono le donne. Almeno 500 parti all’anno è il minimo per garantire un adeguato stardard di sicurezza. Meglio organizzare in maniera più efficace i sistemi di elitrasporto e le auto-lettighe”


di Fabio Peterlongo


TRENTO. «Tenere aperti punti-nascita con meno di 500 parti l’anno mette a rischio la salute di donne e bambini». La netta pronuncia delle Società Scientifiche dell’area Ostetrica e Ginecologica, Neonatologica e Pediatrica, che nel settembre 2019 denunciavano i rischi del tenere aperti i punti-nascita minori, è risuonata pochi giorni fa in Consiglio regionale, evocata dalla consigliera dei Verdi Lucia Coppola. Nel documento, i medici sottolineavano il loro sostegno alla razionalizzazione dei punti-nascita deliberato nell’accordo Stato-Regioni del 2010 attraverso la chiusura di quelli con meno di 500 nati l’anno. Questa è la quota di nascite considerata accettabile al fine di assicurare un’adeguata continuità nell’impiego e nell’addestramento del personale sanitario che assiste le partorienti. Numeri che in Trentino sono un autentico miraggio: nel 2020, presso il punto-nascita di Cles sono nati 113 bambini, appena 67 a Cavalese. Persino Rovereto supera a malapena l’asticella, con poco più di 500 nati.

Una voragine divide i numeri dei punti-nascita periferici trentini rispetto allo standard nazionale. Ma quali possono essere le conseguenze della scelta di mantenere aperte le micro-sale parto? Ne abbiamo parlato con il dottor Emilio Arisi, per 17 anni primario di Ginecologia all’Ospedale Santa Chiara. Il suo giudizio è netto: «Ho quarant’anni di esperienza nelle sale-parto e sui punti-nascita con poche decine di nascite l’anno sono categorico: mettono a rischio la salute delle donne. È ora di smetterla con la visione romantica del parto da fare a tutti i costi vicino casa, perché talvolta capitano emergenze imprevedibili e quelle strutture non sono attrezzate per affrontarle. Il dramma è dietro l’angolo e in quei casi a pagare sono le donne».

Dottor Arisi, quali sono i rischi connaturati ad una sala-parto adoperata poche decine di volte l’anno?
Chi lavora in una sala-parto deve poter contare su un’equipe addestrata e su una sala operatoria pronta in pochi minuti per ogni evenienza, perché nei casi fortunatamente rari in cui il parto diventa a rischio, un intervento non sufficientemente rapido può costare la vita della partoriente. È inevitabile che in un ospedale periferico il rischio che si affaccino incognite impreviste è molto più alto.

Nel 2020, si sono contati 67 nati a Cavalese e 113 a Cles. Sono sufficienti per garantire l’expertise degli operatori sanitari?
Almeno 500 parti all’anno è il minimo per garantire un adeguato stardard di sicurezza, come per altro affermano tutte le ricerche nazionali e internazionali. Figuriamoci con questi numeri. Se l’operatore sanitario “becca” i turni sbagliati, rischia di vedere per davvero un parto al mese, che esperienza può avere?

Quali sono le alternative per non lasciare scoperte le aree periferiche e non pesare troppo sugli ospedali centrali?
Meno punti-nascita portano a un minor frazionamento di un servizio che è molto delicato. È meglio organizzare in maniera più efficace i sistemi di elitrasporto e le auto-lettighe. In Finlandia, non è insolito che le future madri abitino a centinaia di chilometri dal punto-nascita più vicino e nella tarda gravidanza, quando non è in discussione la sopravvivenza del nascituro, spesso vanno a vivere per qualche tempo vicino all’ospedale. Facciamo tesoro delle esperienze che arrivano dai paesi avanzati.

Quali sono le emergenze che i punti-nascita periferici possono non riuscire a gestire?
Se capita l’emergenza, è vero che ci si attrezza in ogni modo, ma i guai sono davvero dietro l’angolo. Per fortuna la natura è intelligente e il più delle volte tutto va bene, ma c’è un 8-10% di parti complessi, alcuni di questi presentano complicazioni non prevedibili e potenzialmente molto gravi. Pensiamo ad una donna che abbia già proceduto in precedenti gravidanze al taglio cesareo. In quei casi c’è un rischio aumentato che nel corso del parto si riapra la ferita del vecchio taglio. Questo porta a grandissime emorragie e serve una sala operatoria pronta. Anche se, lo preciso per tranquillizzare, non è sempre così, stiamo vedendo che spesso le donne che nel passato hanno subito un cesareo poi possono procedere comunque con parti naturali.

Come spiega l’insistenza della politica, spesso in maniera bipartisan tra destra e sinistra, sulla difesa strenua dei punti-nascita di valle?
Chi è favorevole alle sale-parto periferiche con poche decine di nascite l’anno non ha mai messo piede in una sala parto, mentre io ci ho lavorato per quarant’anni. Sembra dominare una visione romantica del parto, da fare a poca distanza da casa, magari vicino ai nonni. Ma umanizzare l’esperienza dell’ospedale e del parto non significa mettere in pericolo le persone. Su questo sono categorico e parlo alla luce della mia esperienza.













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