«Maledetto sia Cadorna, prepotente come un cane» 

Levico, al Forte delle Benne i “canti proibiti” dei soldati dell’esercito italiano


di Alfonso Masi


“Sul cappello che noi portiamo”, “Bombardano Cortina”, “Il testamento del capitano” sono canzoni che subito dopo la Prima Guerra Mondiale divennero patrimonio comune dei cori alpini e tuttora vengono eseguite per celebrare il conflitto nei suoi aspetti eroici. Non sono però questi canti il focus dell’appuntamento organizzato dall’ Associazione Culturale “Rosmini” per domenica 30 settembre alle ore 15.30 al Forte delle Benne di Levico e dal titolo “I canti di trincea”. Sul palco ci sarannole le voci di Tiziano Chiogna, , Fiorenzo Pojer e di chi scrive, la chitarra di Patrick Coser e la fisarmonica di Luciano Maino. Al centro dell’attenzione ci sono infatti quei canti che, seppur nati in trincea, hanno dovuto attendere gli anni ’60 per essere eseguiti in pubblico in quanto ritraevano la guerra nei suoi aspetti meno eroici e presentavano un vissuto di protesta contro la stessa. Si tratta di canzoni ripescate da chi ha girato l’Italia intervistando soldati che avevano vissuto in trincea e dalla viva voce dei quali ha tratto un filone che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto per sempre; canzoni che poi ebbero i primi interpreti in Sandra Mantovani nel disco “Il povero soldato” e nel Duo di Piadena con il disco “Maledetta la guerra e i ministri”. Tutti i canti sulla Grande Guerra nel 1981 trovarono poi ospitalità nei due volumi di Savona-Straniero “I canti della Grande Guerra”, un’ opera estremamente esaustiva e documentata; stupisce la mole di canti nati sul fronte italiano, che trova però la spiegazione nella particolarità della guerra che venne combattuta: la guerra in trincea, che costrinse i soldati ad un’ esistenza terribile e anche noiosa; le ore trascorse in trincea vennero anche impiegate cantando allo scopo di “ammazzare il tempo”. Sorsero così numerosissime canzoni, per molte delle quali si cambiarono le parole a melodie in voga a quel tempo; è il caso del breve motivetto “Bombacè”, sulla cui aria nacquero centinaia di strofette che commentavano la guerra sull’intero fronte italiano, dallo Stelvio al Carso, dall’inizio del conflitto sino al dopo Caporetto, quasi un anonimo e involontario poema della Grande Guerra. Chi scrive, quando era bambino, sentiva cantare tre di tali strofe da un ragazzo del ’99, padre di un compagno d’infanzia, che sul Grappa aveva lasciato un avambraccio: “Il General Cadorna ha scritto alla regina:/ se vuol veder Trieste, la guardi in cartolina./ E tosto la regina ha scritto al generale:/ se vuol vedere Trento, si compri un cannocchiale.” E a voce più bassa, per non scandalizzare noi bambini: “E allora Re Vittorio fra loro intervenuto/ all’uno e all’altro disse: Miei cari, son fottuto.” In realtà erano numerosissime le strofe in cui si esprimeva la rabbia contro il Comandante supremo dell’Esercito Italiano e contro Re Vittorio Emanuele III; siccome era invalsa l’ abitudine di battezzare il proprio mulo con il nome del Re, Cadorna emanò una circolare per reprimere tale usanza. Un soldato della provincia di Bergamo venne sorpreso in licenza mentre così cantava: “IL General Cadorna faceva il carrettiere,/ per asinello aveva Vittorio Emanuele.” Nel successivo processo fu condannato a sei anni di reclusione per propaganda disfattista.

Lo sfogo contro Cadorna è presente inoltre nella canzone “Maledetto sia Cadorna, prepotente come un cane”, che presenta senza tante ipocrisie la realtà della guerra italiana come aggressione all’Austria: “vuol tenere la terra degli altri,/ che i tedeschi sono i padron.” Quale differenza con la canzone del Piave in cui l’entrata in guerra dell’Italia è presentata come guerra difensiva: “L’esercito marciava per raggiunger la frontiera/ per far contro un nemico una barriera”; eventualmente guerra difensiva diventò dopo la disfatta di Caporetto e non certo il 24 maggio 1915! Un’altra perla di retorica presente nella stessa canzone, non nata in trincea, ma composta a tavolino nel 1918 dal musicista E. A. Mario, la si trova sempre nella prima strofa: “Muti passaron quella notte i fanti/ tacere, bisognava andare avanti.” Del resto cosa potevano dire? Avevano lasciato padri, madri, moglie e figli, costretti ad abbandonare il lavoro, le proprie terre che coltivavano, per andare a combattere in zone di cui non conoscevano neppure l’esistenza.

La protesta prendeva forma anche aggiungendo una strofa conclusiva ad una canzone popolare: è il caso di £Gran Dio del cielo£ che, da canzone d’amore, divenne una protesta contro la guerra. Ne abbiamo notizia da una sentenza del Tribunale militare; sette giovanissimi soldati, la sera del 21 gennaio 1917, nei pressi dell’accampamento di Bassanese stavano così cantando: “Prendi il fucile e gettalo per terra;/ vogliam la pace, non vogliam più la guerra.” Alcuni ufficiali li sentirono, ma riuscirono a catturare soltanto uno degli improvvisati cantanti che venne condannato a 5 anni e 7 mesi di reclusione per “quella nefasta canzone, sediziosamente suggestiva, oltre che scandalosa e pericolosa.”

Anche “Fuoco e mitragliatrici” era cantata sull’aria di una canzone napoletana di Libero Bovio ed Ernesto de Curtis, stampata nel 1913; la canzone nacque nelle trincee del Carso, precisamente sul Monte S. Michele, ricordato anche da Ungaretti nella lirica Sono una creatura. La protesta vi affiora discreta, ma incisiva: la guerra è definita “flagellazione”, “lunga un’eternità”. Vi si fa riferimento ai frequenti, inutili e sanguinosi assalti alle trincee nemiche: “Per conquistare un palmo di terra,/ quanti fratelli son morti di già.” I soldati sono considerati fratelli come nell’omonima lirica di Ungaretti! Il logoramento viene prolungato sino alla morte :”un reggimento più volte distrutto,/ alfine indietro nessuno tornò.” Queste ultime parole fanno da pendant a due strofette della onnipresente Bombacé: “Il nostro battaglione è un pochettino scarso,/ abbiam lasciato gli altri a S. Michel del Carso.// In coppa al San Michele ci sta la Cima Uno,/ vi montano su tutti, non torna più nessuno.”

Le offensive sul Carso facevano parte della strategia di Cadorna che intendeva conquistare Gorizia e ciò avvenne dopo la sesta battaglia sull’Isonzo nell’agosto 1916; su tale impresa (l’ unica conquista significativa del Generale Cadorna) troviamo due interpretazioni totalmente opposte: “La sagra di Santa Gorizia” di Vittorio Locchi, poema celebrativo composto probabilmente nello stesso anno, e la canzone “O Gorizia”, che proprio nell’agosto 1916 veniva cantata dai fanti, impegnati nella conquista della città, ma secondo molti ricercatori già presente nel 1915 fra i soldati impegnati nelle precedenti battaglie sull’Isonzo. La strofa più forte è la terza: “O Gorizia, tu sei maledetta/ per ogni cuore che sente coscienza./ Dolorosa ci fu la partenza/ e il ritorno per tutti non fu”; mentre la conclusione diventa intima e coinvolge la sfera famigliare del soldato: “Cara moglie, che tu non mi senti,/ raccomando ai compagni vicini/ di tenermi da conto i bambini/ che io muoio col suo nome nel cuor”. “O Gorizia” ottenne fama nel 1964 dopo lo scandalo che suscitò al Festival dei Due Mondi di Spoleto, quando l’ esecutore e gli autori dello spettacolo “Bella ciao”, furono incriminati per vilipendio delle forze armate per una strofa che era stata aggiunta all’ultimo momento e che metteva in cattiva luce gli ufficiali che avevano combattuto nella Grande Guerra. Infine “Maledetta la guerra e i ministri” ritrae il lamento di una madre che ha perso in guerra il proprio figlio ventenne, ma nell’ultima strofa si fa riferimento ai ministri “che tutto il mondo i g’ha rovinà”; e per loro c’è la maledizione, come in un’altra canzone la maledizione è rivolta agli studenti interventisti: “Siam maledetti quei giovani studenti/ che han studiato e la guerra han voluto./ Han trascinato l’Italia nel lutto,/ per tanto tempo il dolor resterà!”.













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