«La neutralità è l’essenza del nostro lavoro. Ovunque» 

Trento: intervista a Fabrizio Damiani, ai vertici della Croce Rossa Internazionale «In Bangladesh abbiamo allestito un campo profughi per 800 mila persone in 3 mesi»


di Maddalena Di Tolla Deflorian


TRENTO. Il suo primo ricordo forte come volontario della Croce Rossa si riferisce alla Liberia. «Era il 2005, dopo gli accordi di pace. Vedevo un paese dove si doveva ricominciare quasi da zero. Sono contesti dove capisci che serve un intervento strutturale e uno mentale, culturale. Perché se non si lavora anche a quel livello, accanto alla ricostruzione, si fallisce». Fabrizio Damiani ha raccontato la sua esperienza e visione del ruolo della Croce Rossa nelle crisi umanitarie nei giorni scorsi a Trento, nell’ambito della manifestazione “Il mondo InTenda”. Oggi Damiani ricopre il ruolo di Senior Programme Officer Desk per la zona Europa, Asia Centrale, Asia-Pacifico, del Dipartimento Cooperazione Internazionale della Croce Rossa Italiana. L’abbiamo intervistato.

Damiani, che ruolo hanno i corpi intermedi, come la Croce Rossa, nelle crisi umanitarie sullo scenario internazionale? Riescono a fare la differenza per le popolazioni vittime?

«Bisogna tenere presente che parliamo di un contesto molto complesso, dove ciascuno ha un suo spazio di manovra politico e operativo. Abbiamo di fronte un mosaico di questioni. Noi spesso siamo una sorta di ultima spiaggia, laddove gli altri non riescono più ad arrivare perché le parti in conflitto non danno loro accesso. Per questo spesso è difficile far capire l’essenzialità della nostra neutralità. Abbiamo 63 progetti in 43 paesi, operiamo per ridurre il rischio o potenziare le capacità locali. Ad esempio, lavoriamo in Russia per proteggere i migranti, o come noto, siamo presenti in Bangladesh per fronteggiare la crisi dei rifugiati Rohingya fuggiti da Myanmar. In Bangladesh, dobbiamo immaginare, in soli tre mesi si è allestito un enorme campo profughi che ospita 800.000 profughi. Si tratta di una situazione che pone sfide organizzative e umanitarie enormi».

Ecco, in quel caso riuscite a far ottenere i documenti ai Rohingya sprovvisti o a farne riconoscere lo status di rifugiato dal governo del Bangladesh?

«Questo è l’esempio giusto per spiegare la complessità del nostro lavoro. La risposta è “non direttamente”, perché quello non è il nostro compito. Diciamo che noi riusciamo a esercitare una forma di pressione morale e istituzionale, proprio per il riconoscimento globale che la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa mantengono fin dalle origini. Il fatto stesso che i nostri operatori e volontari possano documentare, assistendovi di persona operando nei campi profughi, il dramma dei Rohingya costituisce una forma di pressione morale e politica. In questo modo contribuiamo anche al progressivo rientro in patria. In alcuni casi sbilanciarsi troppo comporta precludere la possibilità di intervenire».

In Siria che ruolo avete?

«Direi un ruolo fondamentale, siamo uno dei pochi soggetti che può ancora entrare e offrire assistenza sanitaria e psicologica a migliaia di persone che rimangono 24 ore al giorno sotto le bombe. In casi come questo, andare da soli senza fare alcuna alleanza o partnership è l’ultima possibilità per la popolazione rimasta intrappolata dal meccanismo del conflitto. La Croce Rossa però non ha rinunciato di recente a chiedere che si aprano i corridoi umanitari».

In Libia cosa riuscite a fare? Entrate nei famigerati centri di detenzione dei migranti?

«La Mezzaluna Rossa libica potrà entrarvi fra poco tempo, proprio in virtù della nostra universalità, con risorse adeguate grazie a un bando del Ministero italiano. Sappiamo che sono luoghi con accesso altrimenti inimmaginabile. Lì si svolgerà un lavoro di assistenza medica e psicologica e anche di supporto alle comunità locali che si trovano intorno ai centri. Dobbiamo creare una migliore percezione dei migranti nelle comunità che stanno intorno ai centri».

Damiani non può dire molto di più. Il lavoro di chi si pone come argine umanitario dentro tremendi conflitti è un lavoro sottile, dove una parola sbagliata può comportare morte e sofferenza per molte persone. Parliamo delle persone.

Chi sono i volontari della Mezzaluna Rossa in Siria, in Libia, in altre simili situazioni?

«Dipende, in alcuni contesti sono giovani, urbanizzati, molto motivati, in altri casi sono espressione del contesto rurale di età più matura o si avvicinano a noi anche per un’opportunità di lavoro, inizialmente. I giovani, le persone possono anche essere soggetti di negatività, se non li coinvolgiamo nel modo giusto. Le energie delle persone nei contesti di crisi o conflitto vanno direzionate per togliere frustrazione, per non emarginare, per non fare la “guerra dei poveri contro altri poveri,” per costruire insieme qualcosa verso il loro futuro. Lavorando bene diamo competenze che si applicano tanto nelle crisi e ai migranti, quanto in futuro e per le popolazioni locali».

Cosa direbbe a un cittadino europeo che sia scettico rispetto al dovere e all’opportunità di azione sugli scenari internazionali?

«Diventare parte di una soluzione ci permette di capire meglio cosa sta succedendo, per prima cosa. Poi, oltre all’ovvio dovere morale, umanitario, che di questi tempi non è scontato, suggerisco anche di pensare che comunque risolvere situazioni di crisi fuori dall’Europa, contribuisce a un contesto di pace per tutti noi e anche di apertura economica».















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