L’INTERVISTA»IL REGISTA ALBERTO FASULO

TRENTO. Accolto con grande entusiasmo di critica come unico film italiano inserito nel concorso principale al 71esimo Festival di Locarno, arriva a Trento e Rovereto “Menocchio” del regista Alberto...


di Katja Casagranda


TRENTO. Accolto con grande entusiasmo di critica come unico film italiano inserito nel concorso principale al 71esimo Festival di Locarno, arriva a Trento e Rovereto “Menocchio” del regista Alberto Fasulo. Film e regista sono protagonista di una serie di eventi ad incominciare dalla proiezione al Cinema Astra di Trento da oggi 15 novembre, ore 19 in replica venerdì 16 e sabato 17 novembre alle ore 17 e domenica alle ore 21. Domani, venerdì 16 il film sarà anche proposto all’interno del ciclo “Cinema Presenta”, rassegna cinematografica organizzata dal Centro Culturale Santa Chiara di Trento in collaborazione con Cineforum Rovereto, ore 21 in Auditorium Melotti. Il regista invece sarà ospite sempre domani, 16 novembre, ore 15 al Castello del Buonconsiglio di Trento nell’ambito del seminario del ciclo di appuntamenti “Dalla carta ai pixel. I racconti della storia” mentre alle ore 18, Fasulo incontra il pubblico in Auditorium Melotti di Rovereto sempre per Cinema Presente. Grande entusiasmo per il cast, costituito da comparse e attori improvvisati selezionati da Fasulo sul territorio trentino e friulano. La storia, che è stata resa nota dallo storico Carlo Ginzburg nel saggio del 1976 “Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500”, racconta la resistenza intellettuale del mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, processato e giustiziato per eresia durante l’Inquisizione. Ne parla il regista Alberto Fasulo.

Come nasce il film “Menocchio”?

«L’idea di questo film risale ad una quarantina di anni fa quando rimasi affascinato da questo personaggio del mio territorio con una morale statuaria , una storia importante all’interno di un periodo molto importante: l’avvento della Controriforma. Non una denuncia contro la Chiesa, ma si vuole indagare il processo psichico e morale di un uomo che decide di sfidare il potere più grande. Un riflesso della fase adolescenziale di rivolta contro il potere costituito. Sebbene la paura lo faccia rinnegare alla fine, torna fermo nella sua posizione e affronta la responsabilità della propria coerenza. Ciò che mi ha spinto a realizzare il film è stato dare vita a questo personaggio realmente esistito e fare un tuffo indietro di 500 anni pur parlando di attualità».

In che senso?

«Perché oggi va riscoperto quel coraggio, mentre invece viviamo sedati fra bisogno di integrazione a tutti i costi e pastiglie contro le nevrosi permettendo che ci vengano tolti tutti i diritti. Invece Menocchio ha il coraggio di sfidare la Chiesa, rivendica il diritto di pensarla diversamente. Una goccia, magari piccola, ma che può fare la differenza. Incarna ideologie decadute in questo medioevo in cui stiamo ripiombando. L’idealismo è una sorta di utopia per cui forse è sbagliato parlare di idealismo. Menocchio è un uomo materico che lotta per ciò in cui crede rischiando la vita»

Affrontando gli intellettuali da un nuovo punto di vista?

«Il suo è quello dell’osservazione delle cose, della natura, del quotidiano e se ne fa un’ idea, non gli interessa filosoffeggiare».

Qual è stata la difficoltà maggiore in questo film?

«Trovare distributori che credessero in questo film. Quindi lo abbiamo autodistribuito e il pubblico sta rispondendo molto bene, in una settimana è uno dei titoli più richiesti»

Quindi Menocchio è vivo?

«Il suo spirito è ancora vivo. Ciò che vorrei è che le persone andassero in sala al cinema per avere un momento di condivisione in un mondo che ci sta isolando e rendendo sempre più soli e lontani,cosa che ci rende più facili da dominare e lobotomizzare. Invece vorrei che si ritrovasse l’empatia con gli altri emozionandosi e lasciando che Menocchio ci faccia da specchio e ci faccia uscire dalla ruota da criceto in cui ci siamo infilati per tornare ad essere vivi. A volte avere il coraggio di essere coerenti e di lottare per ciò in cui si crede, anche a discapito della vita, rende questa degna di essere vissuta...Altrimenti che vita è?»

Nel film c’è molto Trentino, come mai questa scelta?

«Per un motivo storico, perché Trento è la città del Concilio, e poi perché ho capito che dovevo girare al Castello del Buonconsiglio quando mi capitò di visitarlo nei giorni in cui ero in giuria al Trento Film Festival. Fu una folgorazione, al di là del fatto che ogni angolo del castello è non solo perfettamente tenuto ma anche pregno di storia. Molti personaggi del film sono trentini, il cast è formato da persone normali. Il protagonista è un guardiano della diga del Vajont. Nessuno è professionista, quello che cercavo erano ritratti e caratteri, una sorta di atlante iconografico, dei ritratti del ’400 e del ’500, i casting sono stati in Trentino e in Friuli. Alcuni protagonisti hanno fatto interpretazioni magistrali e alcuni sono il mio orgoglio personale, ma tutti sono da elogiare».

Non solo attori e set, il Trentino si lega a doppio filo con il film?

«Ho trovato persone coraggiose e disponibili che hanno creduto nel progetto. Il direttore del Castello, la Trentino Film Commission con la sua organizzazione e sostegno e poi tutti coloro che si sono messi in gioco».

Quindi un padre orgoglioso della propria cretura?

«Sono contento perché il film è l’espressione dell’idea a cui ambivo e la richiesta del pubblico ne è la prova anche se poi il giudizio se lo farà chiunque andando a vedere il film».

Cosa vorrebbe si portasse a casa il pubblico?

«Un po’ di coraggio e consapevolezza, l’emozione di guardare in faccia chi ci ha provato a rendere migliore il mondo. Oggi ti viene detto persino cosa senti o devi pensare e Menocchio denuncia tutto questo. Se attraverso il film passa un brivido o un’emozione, allora sono valsi questi cinque anni di lavoro».

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