Olimpiade da record, ma non per gli azzurri

Sul Trentino un inserto di otto pagine su Sochi: la situazione in Russia, le gare, i personaggi


di Maurizio Di Giangiacomo


TRENTO. Comunque vada, sarà un’Olimpiade da record. Record di spesa, innanzitutto. Lo Zar Vladimir Putin non ha badato a spese, la “macchina” di Sochi è costata 51 miliardi di dollari e i suoi amici oligarchi hanno coperto di rubli le federazioni sportive per cancellare la “vergogna” di Vancouver – 15 medaglie e solo tre d’oro – e dominare i Giochi in casa.

Da record sarà sicuramente la sicurezza, dopo gli attentati e le minacce – vere o fasulle – delle scorse settimane. Anzi, non c’è dubbio sul fatto che l’Orso Russo userà l’allarme del terrorismo ceceno per imporre un ulteriore giro di vite sul fronte dell’ordine pubblico. Con il rischio di trasformare Sochi in una foresta pietrificata. Per timore di un attacco chimico, i tombini sono stati sigillati con il silicone. E tra contrattempi nelle prenotazioni e stanze d’albergo fredde, nei giorni scorsi è risuonato un campanello quasi altrettanto allarmante, quello del flop sul fronte degli spettatori.

Ma veniamo all’Olimpiade in pista, quella che più c’interessa. Si diceva del flop russo a Vancouver, dove – contando le medaglie d’oro – s’imposero i padroni di casa canadesi (14) davanti a Germania (10) e Stati Uniti e Norvegia (9), ma gli americani portarono a casa complessivamente 37 medaglie. Chi la spunterà, stavolta? Ma, soprattutto: chi saranno le donne o gli uomini d’oro di Sochi 2014? Volti nuovi, come gli sciatori Mikaela Shiffrin (Usa) e Henrik Kristoffersen (Norvegia) e la saltatrice Sara Takanashi (Giappone)? “Usati sicuri” come Maria Riesch, Marcel Hirscher, Ted Ligety e Aksel Lund Svindal? Oppure saranno i “grandi vecchi” Bode Miller, Ole Einar Björndalen e Armin Zoeggeler a firmare i veri primati dell’Olimpiade dei record?

Venendo a noi, difficile immaginare che possa essere un’edizione dei Giochi da record per i colori azzurri. Le 13 medaglie di Salt Lake City sono un ricordo lontano: a Torino 2006 furono 11, a Vancouver 2010 addirittura appena cinque. Declino che dimostra come il ricambio generazionale, almeno in alcune discipline, non abbia funzionato.

Detto che i talenti veri non crescono sugli alberi e, soprattutto, nascono quasi spontaneamente – l’esempio più classico è quello di Alberto Tomba e, per una disciplina meno diffusa come il pattinaggio velocità, di Enrico Fabris – è altrettanto vero che i campioni, specie negli sport “minori”, vanno coltivati. E l’impressione è che, negli sport invernali e in quelli del ghiaccio, negli ultimi anni le nostre federazioni siano state tanto sfortunate dal punto di vista della “fioritura” quanto poco attente sul fronte della “coltivazione” degli sportivi di alto e altissimo livello. Il caso più eloquente è quello dello sci di fondo: esaurito il ciclo dei Di Centa, delle Belmondo, delle Paruzzi e degli Zorzi, siamo quasi spariti dal panorama internazionale, a meno che Giorgio non ci regali un’ultima impresa.

Secondo le stime più ottimistiche potremmo ambire a sette medaglie (un oro e un bronzo per lo snowboarder Roland Fischnaller, argenti per Armin Zoeggeler e la staffetta di slittino, bronzo per Dominik Paris in discesa, Christof Innerhofer nel superG e Arianna Fontana nello short track), quella più realistica dell’Associated Press ce ne concede solo quattro (argento e bronzo per Fontana, argento per la staffetta di slittino e bronzo per lo snowboarder Omar Visintin).

Ma l’importante, come diceva Pierre de Cubertin, è partecipare. Che non è vero per niente: anche l’ultimo qualificato degli azzurri va a Sochi sognando una medaglia. E sognare non costa nulla.













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