il caso

Pfas, concentrazioni sospette nel Garda. «Subito un impianto in Trentino»

Franz Basso, ex ispettore ambientale: «Per anni il percolato è stato disperso. Dove? Di sicuro nel sottosuolo. Voi diluite i veleni ma così non risolvete il problema»


Andrea Tomasi


RIVA DEL GARDA. Diluisci quanto ti pare ma se poi quei veleni te li trovi anche nel Lago di Garda qualche dubbio devi fartelo venire. A suonare il campanello d’allarme sul caso Pfas in Trentino è Franz Basso, ex ispettore Arpav (Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale in Veneto) ospite, assieme al dottor Franco Sarto (medico del lavoro e presidente di Legambiente Alta Padovana), della serata informativa promossa venerdì a Riva dal Coordinamento Ambiente .

Sostanze pericolose

Diluizione maledetta. Diluisci, ma non risolvi. Loro, i Pfas, sono idrosolubili e poi restano, per sempre. Pfas, nome ormai noto anche in provincia di Trento, nome che identifica la macrocategoria delle molecole di perfluoroalchilici: una combinazione micidiale di carbonio e fluoro, sostanze chimiche impermeabilizzanti. I Pfas sono usati per fare tessuti tecnico sportivi, pentole, pellicole e schiume per estintori. Sono l’inquinante perfetto: inodori, incolori, insapori e, in caso di lunga esposizione, la causa di una serie di malattie (cancro, infertilità, evoluzione anomala dell’apparato genitale dei bambini, patologie del sistema nervoso e della tiroide).

I Pfas nell’acqua del lago

Franz Basso mette in guardia i trentini - intesi come cittadini, come amministratori pubblici e come tecnici dell’Appa (Agenzia provinciale protezione dell’ambiente). Mostra le slide con i dati sulla concentrazione di Pfas nelle acque del Lago di Garda e dice: «Il limite per per acque superficiali è 0,65 ng/litro, ma se i dati dei prelievi ufficiali indicano il valore medio di 0,30 di Pfos nel Lago di Garda, io non starei così tranquillo. Sono valori sospetti. Io dico che la situazione va approfondita».

I veleni, dalla Maza all’Adige

“Il nuovo Trentino” segue dall’inizio tutta la questione. Abbiamo dato la notizia che nell’aprile 2019 i tecnici Appa avevano rilevato la presenza di Pfas nel percolato (il liquido che viene raccolto a valle delle discariche, che è sostanzialmente la “spremuta” di ciò che esce dai rifiuti, attraversatI dalle acque piovane e di sorgente) proveniente dalla Maza di Arco a concentrazioni pari a 7800 ng/litro. A distanza di quattro anni nuove analisi Appa hanno confermato che i Pfas nella discarica sono ancora a quei livelli. E l’aggenzia provinciale ha fatto sapere che analoghe concentrazioni si hanno nelle discariche di Trento e Rovereto. Il percolato finisce al depuratore di Rovereto che però non può bloccare i Pfas. Quindi uelle sostanze per anni sono state diluite nelle acque del fiume Adige. Una diluizione, ancora in corso, che preoccupa l’avvocatessa Gloria Canestrini (ColT - Comitato legalità e trasparenza del Trentino). La legale, con Germano Fatturini (portavoce di Rinascita Rovereto), ha depositato sei denunce in altrettante Procure (Rovereto, Verona, Padova, Rovigo, Vicenza e Venezia ). Franz Basso dice che Appa sta facendo una cosa buona con la bonifica della parte di Maza non impermeabilizzata (bonifica consistente nel trasferimento del materiale dalla parte non impermeabilizzata a quella impermeabilizzata, che comunque non sarà conclusa prima del 2024), ma non basta.

Tutto è finito nel sottosuolo

L’ex ispettore dell’Arpav fa notare che se adesso si parla di bonifica, «non c'è dubbio che per anni vi siete trovati ad utilizzare una discarica (quella della Maza di Arco, ndr) che non aveva né telo né contro-telo». E ancora: «Per anni avete perso il percolato che è finito nel sottosuolo. Dove è andato? Non si sa. È andato disperso». L’esperto spiega che sicuramente queste dispersioni hanno «intaccato l’ambiente».

L’impianto per depurare

L’esperto veneto evidenzia il fatto che il depuratore di Rovereto non è dotato di un impianto di osmosi inversa, che permetterebbe una riduzione significativa della presenza di molecole di perfluoroalchilici. «Voi , rispetto a noi veneti - che abbiamo un problema enorme nelle province di Vicenza, Padova e Verona - siete arrivati dopo. Noi abbiamo installato impianti ad osmosi inversa. Sulle discariche i percolati li trattiamo e arriviamo ad abbassamenti che sfiorano quasi lo zero». Spiega che con quel tipo di tecnologia si potrebbero fermare in parte anche altri inquinanti: microplastiche, diossine, residui di farmaci. Prodotti, questi, che assieme ai Pfas, inevitabilmente finiscono nelle acque del fiume Adige. La diluizione - dice - non risolve se non solo in apparenza un problema «che dovrete/dovremo affrontare».

Ridurre i contaminanti

Basso dice che, con l’osmosi inversa, si passerebbe dal 100% delle sostanze ad una riduzione al 5%: una quantità che «potrebbe essere eliminata all’interno di termodistruttori che, attenzione, non sono termovalorizzatori». A livello europeo vige il regolamento 1021/2019, che non pone un limite di accettabilità dei percolati. Insomma non possono mai essere scaricati nell’ambiente. Il regolamento impone la distruzione degli inquinanti persistenti. In deroga a questa imposizione, al di sotto della concentrazione di 50 mg/kg, è possibile trattare il rifiuto in modo alternativo alla distruzione completa dell'intero rifiuto. Quindi, l'osmosi inversa applicata in Veneto è già la deroga alle indicazioni europee. Il Trentino autonomo - si dice - potrebbe allinearsi almeno al Veneto. Sono inquinanti che - ricorda il dottor Franco Sarto - non possono neanche essere testati sulle cavie: i ratti li eliminano in 3 ore; l’uomo impiega da 3 a 10 anni. Il “test” sugli umani è quindi in corso.













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