Ivan Carozzi in viaggio al termine della “trap” 

L’intervista. Lo scrittore oggi a Trento e poi ad Arco con il suo ultimo libro “L’età della tigre” Reportage su un fenomeno culturale e sociale che diventa anche confronto tra generazioni 


Paolo Morando


Trento. Tanti anni di lavoro per la televisione, ma nel retrobottega, come autore di testi per diversi programmi di successo. Poi un’esperienza allo storico mensile Linus fino al cambio di proprietà di un paio d’anni fa. Di tutto questo Ivan Carozzi ha fatto tesoro per il suo lavoro di scrittore: e così, in “L’eta della tigre” - che presenta oggi 18 ottobre a Trento, alle 18.30, alla libreria Due Punti di via San Martino 78, e domani 19 ottobre ad Arco, per il Festival Piattaforma delle Resistenze, alle 18.30 al Centro giovani Cantiere 26 - si applica al fenomeno musicale della “trap” per calarsi però in un pozzo più nero e profondo.

L’impressione è che tu abbia usato il fenomeno della trap, che è culturale e sociale, per raccontare lo sfacelo dei nostri anni. È così?

La trap si è rivelata per me un oggetto di estremo interesse, intendo come estetica e linguaggio da comprendere, esplorare, rappresentare. Piano piano, mentre lavoravo al libro, quel tema ha aperto altre porte. Ne ho approfittato volentieri per integrare nel testo argomenti e istanze apparentemente distanti da quella che era la traccia originaria del libro. Ne è nato un testo che, mi permetto di descriverlo, è tante cose insieme: un percorso a piedi nella città di Milano, una confessione, una testimonianza sul lavoro e su un luogo di lavoro, un confronto tra generazioni e il racconto di tanti incontri con persone diverse, che mi hanno fatto capire qualcosa in più sul mondo e sull’epoca in cui viviamo.

Racconti lo sforzo della Milano di oggi paragonandola alla Milano da bere degli anni ’80, ma poi ne dettagli luoghi e figure marginali. Perché?

È stato tutto molto naturale, non c’è nessun progetto particolare dietro la mia scrittura, di solito, se non la scelta di un tema a monte; dopodiché entro in un periodo di assoluta concentrazione e le esperienze che faccio, giorno per giorno, cominciano a diventare significative e a collegarsi l’una all’altra. Esempio: trovo per caso in un bar una guida del 1985 ai negozi e al tempo libero a Milano. Me ne innamoro, mi sembra un documento straordinario e mi convinco che la trap abbia trovato un terreno particolarmente fertile a Milano, proprio perché è esistita quella Milano degli anni 80, quel grande carnevale dei consumi e delle merci passato alla storia come “Milano da bere”. Poi un giorno conosco in un mercato multietnico un umilissimo orologiaio maghrebino e mi persuado che parlarci, raccontare la sua storia, è in qualche modo coerente con il manoscritto, dato che scrivere di trap e Sfera Ebbasta significa prima o poi imbattersi nei costosi orologi da polso ostentati dai trapper. Tutto si tiene, se tracciamo delle linee tra i punti.

Gli accenni autobiografici sono continui. E quelli relativi alla tua esperienza nell’industria culturale particolarmente amari. Ma c’è qualcosa da salvare?

Certo, nel mio lavoro ho incontrato persone straordinarie, ho imparato moltissimo, mi sono evoluto, così come ho pure subito e inghiottito molto. Ma è soprattutto scrivendone che quella storia, fatta anche di perdita di senso della professione e di precarietà, diventa un’avventura, o meglio la mia vita, sulla quale non posso che provare a riflettere, tentando di darle un senso.

Dopo questo viaggio al termine della notte, hai imparato ad apprezzare la trap?

Se per “apprezzare” intendiamo reale godimento, contemplazione o il proverbiale brivido sulla pelle, direi di no. Ci sono artisti che seguo e trovo interessanti e sonorità di cui riconosco la raffinatezza o anche una brutalità che mi affascina, ma per tante ragioni non vivo il trasporto che posso provare ascoltando altri artisti.















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