«Così viviamo e resistiamo nella zona rossissima di Brescia»

«Vivo in una zona rossa, anzi rossissima». Cristina Baldo abita a Brescia, è docente di storia della musica presso il conservatorio bresciano. Figlia di Renzo, direttore del giornale Brescia Oggi...


Paolo Tessadri


«Vivo in una zona rossa, anzi rossissima». Cristina Baldo abita a Brescia, è docente di storia della musica presso il conservatorio bresciano. Figlia di Renzo, direttore del giornale Brescia Oggi prima di Piero Agostini. Cristina racconta com’è cambiata la sua vita. «Nel primo lockdown siamo scivolati dentro senza quasi accorgercene. I primi divieti, soprattutto quello dell’abbraccio e della vicinanza che ci parevano strani, molto strani. Poi in un batti baleno la chiusura di tutto e l’imposizione di stare in casa, le sirene delle ambulanze che segnano il tempo giorno e notte, la vita sospesa. Per un po’ pensi di vivere in una bolla, metti a posto l’armadio, cucini con tranquillità, cerchi di dormire nonostante i risvegli notturni denotino che stai entrando nel panico anche se non lo vuoi ammettere. Il corpo parla. Ti senti fortunata perché puoi stare a casa e il tuo lavoro ricomincia con la dad, la didattica a distanza. Ora mi trovo davanti ad uno schermo a vedere solo me stessa, perché se tutti accendono la telecamera si indebolisce la connessione. Però si lavora, e molto più del solito, ci si aggiorna sullo stato di salute, ci si sente vicini. Iniziano le telefonate di amici e conoscenti, anche lontani e che non sentivi da tempo, che ti chiedono come stai, preoccupati. Stai in una delle zone più martoriate dal virus, Brescia, e cominci ad essere incredula di non averlo ancora preso. Sarà una questione di giorni. Cerchi di fare la spesa online per non uscire, ma può arrivare non prima di 20 giorni, e pensi che da lì a 20 giorni potresti essere morta o in ospedale: inutile farla. La nuova vita può procedere, attaccata davvero ad un filo. Le telefonate e i collegamenti skype rinsaldano amicizie, ne creano addirittura di nuove, così come anche su fb. Altri sprofondano pericolosamente nella solitudine, nel panico, nel vuoto. E intanto il virus gira e miete vittime, ti senti accerchiato. Anche quando l’ambulanza si ferma davanti alla porta di casa e assisti alla laboriosa vestizione per andare a prendere un vicino di casa di 70 anni. Fino a pochi giorni prima era in buona salute. Il figlio lo accompagna fino all’ambulanza e si ferma piangendo guardandolo andarsene a sirene spiegate. Non lo vedrà più. Un’amica ti telefona piangendo perché è morto suo cugino, poi un’altra pure in lacrime, due colleghi si sono ammalati, anche il giovane figlio di un altro. Morto anche il padre di un mio allievo in ospedale per tre mesi e la famiglia di un’amica tutta in ospedale. Quando esci, fondamentalmente per gettare la spazzatura, ti bardi come un palombaro. È un gioco? No. È tutto terribilmente vero. La vita può essere una non vita. La scuola è un’arma di sopravvivenza eccezionale, anche a distanza. La solidarietà e la generosità: altri fondamentali valori da insegnare. Fai marmellate per non pensare e ti bardi per andare in posta. Per fortuna c’è la cultura, per fortuna c’è l’arte. Insegnassimo di più ad amarle creeremmo generazioni di persone più felici. Ti sei abituata alla solitudine e a stare in casa. Sindrome della capanna. È così anche per molti giovani. Ti senti una covid, hai paura di contagiare, hai paura di un abbraccio, perfino quando vedi una persona in carne e ossa dopo un po’ senti come serpeggiare una strana stanchezza, fai fatica a reggere il dialogo. La corporeità che tanto ti è mancata ora ti fa paura. La vita, la tua vita è cambiata. E ora siamo nuovamente in zona rossa, lo sconforto cresce. L’emergenza diventa normalità? L’adrenalina che ci sorreggeva in primavera è scomparsa. Non abbiamo più voglia di ridere. Non abbiamo nemmeno più così paura. Rassegnazione? Rabbia? Impotenza? Crescono i negazionisti: il cervello si difende dalla paura? Davanti abbiamo un lungo inverno che si prospetta con il virus che serpeggia fra noi. Noi, nel nostro privato, dobbiamo stare attenti a non cadere nella depressione e a non sentirci imprigionati. E gli antidoti sono gli stessi, anche se facciamo più fatica a tirarli fuori».















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