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Roberto Keller, il piccolo-grande editore di confine

Voleva fare il missionario ma un prete lo convertì ai libri. E ora, per scovare grande letteratura, fa una vita da monaco


di Paolo Mantovan


Secondo me sei matto, gli dicevano gli amici, alcuni pure esperti del settore. E Roberto Keller, con quell'aria spaurita e quello spirito da monaco, all'opposto si rinforzava nei propositi. E ha avuto ragione lui, quel "matto" di un Keller: così ora è un editore coi fiocchi, nonostante abbia sede ai confini dell'impero.

Che poi non è che Roberto Keller, roveretano, classe 1969, da piccolo volesse diventare il signor «K» dei libri. Certo, nessuno ha mai sentito un bimbo dire: da grande farò l’astronauta o l’editore, direte voi. Questa è una vocazione che arriva pian piano. In realtà Keller s’era interrogato ben presto sul senso della vita e, più con lo sguardo curioso del ragazzo che col trasporto spirituale dell’adolescente, cercava di capire se la sua strada non fosse quella del missionario. Andò all’Istituto Missioni Consolata di Bevera di Castello Brianza, studiò, e fu lì che, ironia della sorte, un missionario lo avvicinò al piacere della letteratura molto più che al desiderio del sacerdozio.

«Sì, accadde proprio così: quel missionario amava la letteratura francese e, nei ritagli di tempo che mi scavavo dallo studio, mi fece riordinare una biblioteca di seimila volumi». Keller sprofonda dentro i tesori della letteratura francese e in lui si fa strada un nuovo progetto. Torna in Trentino e si laurea in lettere moderne. «Primo laureato di tutti i rami della famiglia: era un successo ma anche una sfida per il futuro». Nonni contadini (uno andò soldato per Francesco Giuseppe), il padre meccanico, Roberto finisce tra i libri con la cultura della concretezza. Anche se la tesi la tiene in filosofia teoretica, con i prof Giuseppe Beschin relatore e Silvano Zucal controrelatore, ed è un volo azzardato dentro il mondo siciliano. «Era un lavoro su “Gesualdo Bufalino e la teatralità della vita”. I siciliani, si sa, ritengono che tutto sia teatro». E un po’ hanno ragione, sembra aggiungere Keller con quel suo sorriso sempre un po’ trattenuto. Poi fa un anno di stage alla casa editrice “Marcos y Marcos”. «Lì ho deciso che volevo fare l’editore, sì. Ma ho anche compreso che non volevo vivere a Milano».

E mentre si arrabatta fra vari mestieri, tra cui il panettiere, l’educatore di strada e l’addetto stampa, Keller comincia a immaginare il suo progetto.

«Volevo restare nella mia terra, in Trentino. Ma lo spazio per un editore era strettissimo. Eppure io coltivavo un’idea: offrire questa terra come luogo di confine, come vedetta che avvista le novità del mondo vicino, terra privilegiata nell’intercettare ciò che accade in Europa per portarlo in Italia. Portare libri e, soprattutto, portare idee».

Ok, Keller, ma siamo vicini in che senso? In un comune sentire? «Direi che la cosa è accaduta immediatamente, con i primi libri pubblicati: mi sono subito infilato in un filone mitteleuropeo». Che poi è il “suo” sentire, quello di un italiano che porta un nome tedesco, e «Keller» vuol dire cantina, dove si conserva il buon vino. «È inevitabile, credo, che le scelte dipendano molto anche dal sentire dell’editore. L’editoria è un lavoro, come il giornalismo, che impari facendolo: col tempo quindi impari che cosa scegliere, ma c’è sempre qualcosa che detta le tue scelte, perché ti intriga o dà risposta a qualche tua domanda. Ecco che i libri scelti, quindi, oltre ad essere proposte nuove per l’Italia, dipendono inconsapevolmente da un modo di guardare simile al mio».

E ora, Keller, lei che in Europa si è fatto spazio, che è uno tra i 50 editori (su 6000) più importanti d’Italia, lei riesce a dirci che cosa succede in Europa? Lei e il suo avamposto letterario, a noi oggi, bombardati dall’Europa delle regole, tecnocratica, l’Europa delle stragi del terrorismo, con i Paesi attraversati da profughi e insieme da istinti xenofobi, a noi, piccoli nuovi europei, che cosa ci dite: c’è un comune sentire europeo che traspira dai grandi romanzi o no? «Eh - sfodera il suo sorriso tagliato a metà Keller - dico di no: non c’è. Ma la cosa importante è che ci sono invece tanti esempi di letterature locali che sono propri di terre di confine. È lì, dove ancora si consumano tragedie o ci sono ferite non rimarginate, che fiorisce la letteratura capace di darci nuove risposte. C’è una letteratura che nasce da quel bisogno profondo di dare un ordine al mondo. Io ho pubblicato libri importanti di autori rumeni, ha scritto per Keller niente meno che Andrej Kurkov, il più grande autore ucraino di oggi (che scrive in russo), vedo importanti opere in Austria, un paese che ancora fa i conti col passato... E poi c’è una crescente letteratura meticcia: in Germania turchi che scrivono in tedesco, in Francia arabi in francese».

Ecco, ora il lettore che è giunto fino a questo rigo avrà capito perché Keller è incappato ne “Il paese delle prugne verdi” di Herta Müller. «No, figuriamoci se potevo immaginarmi che ci fosse il premio Nobel dietro l’angolo per Müller. Certo, è stato un bel colpo per accrescere il valore del marchio Keller».

Da lì è iniziata la strada in discesa? «No, in discesa proprio no. L’anno scorso ho fatto i dieci anni di attività, ma per diventare una casa editrice consolidata c’è bisogno di molto tempo rispetto a qualsiasi altra attività imprenditoriale: almeno vent’anni».

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Vabbè, già undici anni da eroe, editore indipendente del piccolo Trentino che - seppur con un po’ di imbarazzo (tipico dei trentinazzi) - si è ritrovato nel 2014 alla cena di gala per Herta Müller seduto fianco a fianco con Antoine Gallimard (nientemeno) e con il capo di Hanser Verlag (l’Einaudi tedesco). «È stata un’esperienza simpatica, anche se io appartengo a una categoria diversa. Sono un piccolo editore indipendente». Che fa una vita da monaco, giusto? «No, dai... Vabbè, le prime vacanze dal 2009 a oggi le ho fatte quest’anno: una settimana a zonzo in moto, una vecchia Bmw R1100R di quarta mano». D’accordo, poche ferie e moto usata. E poi? «Poi scavo un po’ di tempo per me: leggo due ore al mattino dalle 6 alle 8, solo cose che interessano me». Wow, che concessione! Ma si può distinguere fra letture personali o di lavoro? «Sì, non molto, ovvio».

Si sente fortunato, Keller? «In realtà sono un ottimista malinconico». Oh, no! «Però, sì: direi che la fortuna di questo mestiere è che ti permette di fare lo studente tutta la vita, di percorrere strade sempre nuove e di incontrare persone molto ricche dentro». Sì, è fortunato Keller. Una fortuna cercata con tutte le sue forze.

p.mantovan@giornaletrentino.it













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