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Pojer, il vignaiolo fuori dagli schemi che cerca la verità

Con il socio Sandri ha inventato vini stellati e “spiazzanti” E ha dato fiducia ad altri imprenditori: «Ma non è mai facile»


di Paolo Mantovan


I baffi di Mario Pojer, a ben vedere, richiamano quelli famosissimi di Diego Mosna. «Ma i miei sono arruffati e selvaggi - ride Pojer - I suoi sono più precisini». E già qui capisci che il "ragazzo" ha carattere. Tutti sanno già bene che Pojer ha temperamento, ma lui, il pioniere dei vignaioli, non si lascia mai scappare l'occasione.

D’altra parte Mario Pojer è diventato Mario Pojer mica per caso: con quella sterminata curiosità e quello spirito capace di combattere su una parola su una virgola su un dettaglio, ha subito inventato qualcosa di nuovo e ha stupito un’eccellenza illustrissima come sua maestà Luigi Veronelli.

«Io e Fiorentino Sandri ci siamo lanciati nell’avventura nel 1974: avevamo quasi nulla, 2 ettari e pochi strumenti, ma ci abbiamo provato». Un’epoca straordinaria, ricca di scenari che si aprivano, ma anche un periodo in cui le piccole cantine trentine andavano spegnendosi, fagocitate dalla cooperazione. «Ma anche i vini erano sempre più tristi» ricorda Pojer «e noi volevamo uscire dagli schemi». Mario Pojer enologo ventenne appena diplomato a San Michele e Fiorentino Sandri che ha appena ereditato due ettari di vigneto si conoscono da tempo e una sera, alla festa della «terza de lui», stringono l’alleanza decisiva e fondano la cantina. Nel 1975 c’è la prima vendemmia e subito la coppia di vignaioli imbottiglia due piccoli-grandi gioielli. «Guarda che siamo partiti con un torchio preso da un rottamaio, una pigiatrice in legna e sfruttando la pompa dei pompieri. Ma eravamo convinti che queste terre di Faedo avessero qualcosa di speciale, che queste colline fossero perfette per un vino di qualità». Nascono un elegante Palai Müller Thurgau e poi quel Vin dei Molini, quel rosato fresco profumato, acido e di bassa gradazione che strega Veronelli. «Era stupendo: uno schiaffo al mercato, con quel colore corallo, quel carattere, quel profumo di bianco. Era fuori dagli schemi, ecco! Veronelli se ne innamorò e ne fece un articolo su Panorama. Da quel momento fu un successo clamoroso». Ma non in Trentino, giusto? «No, non subito. Beh, sai com’è. Poi noi abbiamo raddoppiato il prezzo: e così ci hanno subito criticati. Credere alla qualità non è facile: qui pensavano che nemmeno questi terreni fossero vocati, e invece adesso oltre a noi, che da due ettari siamo passati a trenta, ci sono altre sette cantine. Sette!».

Roberto Keller, il piccolo-grande editore di confine Voleva fare il missionario ma un prete lo convertì ai libri. E ora, per scovare grande letteratura, fa una vita da monaco

Ecco che comincia a infervorarsi. Ma con stile, coi baffi. «Rustici». Però non si nasce “imparati”, non è che Pojer & Sandri erano due fenomeni così all’improvviso. Un po’ di storia ci sarà... «Certo che c’è storia. E ci sono dei maestri. Ma soprattutto c’è voglia di capire. Io a 18 anni sono andato in Alsazia e in Piemonte a visitare cantine. Volevo vedere cosa fanno gli altri. Lo dico anche adesso: se volete fare qualcosa di serio, muovetevi. Ora andrò in Bulgaria, lo scorso anno sono stato in Georgia: dove nacque il vino settemila anni fa. Poi avevo dei prof a San Michele, come Francesco Spagnolli o Pierluigi Zanoni, che ci facevano capire il senso del profumo e del sapore con degustazioni di Brunello, di Barolo, di Barbaresco: erano lezioni di vita, cose che ti restano e ti plasmano». Tutto ha una storia. «Sì. Per essere vero devi avere una storia. Non ci si improvvisa mai. Ci sono le onde delle mode, ma la verità è un’altra cosa. Come quella volta che ero nella zona del Cognac, nell’azienda vinicola Ragnaud Sabourin, e il vignaiolo patriarca, ottantenne, mi ha mostrato otto bicchieri sul tavolo: “Vede, questo l’ha prodotto mio nonno, questo mio padre, questo io, questo mio figlio, questo mio nipote...” e avanti e avanti e io intanto mi emozionavo e sentivo quanto è importante e vera la storia, il lavoro che s’arricchisce d’esperienza».

D’accordo, ma poi ciascuno è protagonista della propria storia: il vostro Chardonnay è stato il primo a sbarcare a New York. «Sì. A fine anni Settanta eravamo negli Stati Uniti anche con il Müller Thurgau. Abbiamo continuato a credere che fosse decisivo mettere in tavola dei vini particolari, importanti anche se il Trentino non ci seguiva. Non voleva capire. Ti dirò anche che in quegli anni c’è stata della gente di Trento che è arrivata qui in cantina per prendere il vino dopo averlo assaggiato a Monaco di Baviera: “Pensi che non sapevano neppure dove fosse Faedo”, mi dicevano. Lo scoprivano in Baviera!». Ma in realtà con la vostra intraprendenza avete dato la sveglia: ora ci sono molti vignaioli di qualità. «Sì, ci sono delle cantine davvero di grande qualità. Ma sono ancora poche! C’è stato un momento in cui si poteva svoltare, nei nostri anni si erano fatti strada anche Zeni, de Tarczal, Pravis, e c’era chi scendeva dall’Alto Adige per capire cosa stava succedendo, pensa te. Ma proprio in quel momento il Trentino ha perso il treno. Perché arrivano le grandi catene di distribuzione all’estero e chiedono un prodotto da tot milioni di bottiglie per l’America; e poi vogliono un’altra linea a un prezzo ancor più basso. E così dal Trentino, con le grandi cantine, si accetta il “giochino” e ora si producono 200 milioni di bottiglie: il doppio di quanto è in grado di produrre. Questo è lo scenario impostato negli anni ’80-’90. E nessuno ha potuto farci nulla perché ai soci conferitori arrivava un guadagnato elevato. Un guadagno che ora non hanno più. Nel 2002 il reddito di un ettaro era di 22 mila euro, nel 2014 è sceso a 11 mila: dimezzato. Un disastro».

Pojer sembra si agiti ancora mentre lo dice. «Certo che mi agito. Perché l’Alto Adige dopo la scoppola del metanolo (correva il 1986) si è reinventato nella qualità e adesso il suo ettaro vale 18 mila euro. Per non parlare di Valpolicella che è cresciuta 3-4 volte di valore. Mi agito perché c’è un sistema cooperativo in Trentino che non permette a un socio di tentare di farsi anche il vino, di provare a lanciare un prodotto: devi conferire il 100 per cento. È un errore: o usciamo da queste logiche e la cooperazione ritrova il suo spirito originario, o la situazione peggiorerà». Che pessimista, Pojer! «No. Guarda che adesso mi controllo molto e brontolo molto meno di un tempo. Ma vedo che mi cercano, mi cercano per dare consigli, per proporre idee: magari non mi ascoltano, però io le mie cose le dico lo stesso». Baffo Pojer.













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