Olivi: «In Trentino festeggiamo il 17 marzo in fabbrica»

La proposta dell'assessore Olivi per l'Unità d'Italia: «Luoghi di lavoro a porte aperte»


Fausto Da Deppo


TRENTO. Un giorno per riflettere e non solo per celebrare. E' il 17 marzo secondo l'assessore provinciale all'economia Alessandro Olivi, che, nel 150º dell'Unità d'Italia, le fabbriche è d'accordo a fermarle, ma non vorrebbe chiuderle. «Apriamole - propone - apriamole alla comunità, alla gente, trasformiamole per un giorno in luoghi di dialogo fra lavoratori, imprenditori e cittadini, piazze di dibattito sul lavoro, sulla crisi e ciò che ci può unire per uscirne. Apriamole per festeggiare l'Unità non come una vacanza e non con una liturgia fine a se stessa, ma come occasione per parlare del nostro futuro».
Chiuse o, come dice lei, a porte aperte, le fabbriche non produrrebbero. E Confindustria è preoccupata. L'ha detto Emma Marcegaglia e ieri, sul Trentino, l'ha ribadito la presidente trentina Ilaria Vescovi: la festa ci sta, ma celebriamola di domenica.
L'allarme di Confindustria non va preso sottogamba: c'è una ripresa, timida, fragile, mal distribuita ma c'è, e fermarsi può avere delle controindicazioni... D'accordo. Ma il problema della produttività non dipende da un giorno di lavoro in più o in meno. Anche perché, oltre alle ore lavorate, la produttività si misura in qualità, relazioni, posti di lavoro, coesione sociale, in condivisione di una memoria (l'Unità) e di responsabilità (nella crisi).
Il 17 marzo è un pretesto...
Le discussioni di questi giorni mi sembrano più simboliche che sostanziali.
E la sostanza qual è?
In fatto di produttività e competitività, il deficit italiano (e trentino, per quanto da noi con significative eccezioni) è un'eredità di scarsi investimenti nella formazione e nell'innovazione. E, poi, ci mancano la capacità e la disponibilità di governare la domanda di lavoro con opportuni sacrifici, guardando oltre la difesa di posizioni presuntamente acquisite.
Cambia il lavoro, dice lei, devono cambiare le relazioni nel lavoro, le regole della contrattazione sindacale.
Ci dobbiamo rendere conto che questa crisi ci consegna uno senario economico diverso, inedito. Se non l'abbiamo fatto finora, bisogna prepararsi. Anche per questo, il 17 marzo è un'opportunità. Anche perché, se può essere un guaio non voler lavorare questo 17 marzo, per molti è un guaio più grande non poter lavorare il 15, il 16 e poi il 18... Non un giorno una tantum, ma ogni giorno.
Si diceva di sacrifici, diritti da riconsiderare...
Un attimo. Ci sono diritti a cui ci si arrocca a oltranza e che, da diritti, finiscono per diventare altro. E ci sono diritti fondamentali, dai quali la contrattazione sindacale e la concezione del lavoro non potranno mai prescindere.
Partiamo da questi ultimi. Quali sono?
Il diritto a una retribuzione commisurata al lavoro svolto, il diritto a una vita fuori dal lavoro, il diritto a un lavoro che non sia a discrezione di chi lo offre. Insomma, il lavoro come espressione di dignità.
Sul resto, si deve essere pronti a sacrifici?
Prendiamo la vicenda Fiat. Il risultato lo giudico positivo, il punto è che, nell'intera vertenza, la politica è stata assente e il sindacato si è diviso. E' vero che per rilanciarsi un'azienda non può ignorare la valutazione del contesto in cui si muove, è inaccettabile che un'azienda (un manager) detti l'agenda sindacale. Rispondo alla domanda: i sacrifici vanno fatti su tante voci (anche l'orario, per me, non è un tabù), ma ci vogliono regole chiare.
Regole nuove.
Sì, definite per tutti a un tavolo che accolga tutti: aziende, sindacati e amministratori. Altrimenti, in questi scenari in continuo cambiamento e in precario equilibrio, ogni azienda si muoverà per conto proprio. Con i rischi del caso. Il primo: che a dettare leggi e regole sia l'imprenditore forte.
Con Mondadori a Cles com'è andata?
C'era la domanda per un aumento di produzione, tutti sono stati pronti a uno sforzo e, dopo un'iniziale incertezza, l'accordo è arrivato.
Un esempio da seguire.
Guardi, in Trentino abbiamo una cultura della corresponsabilità delle parti sociali più alta che altrove. Possiamo essere un modello e il tavolo creato con la delega sugli ammortizzatori sociali lo dimostra. Ma dobbiamo guardare anche fuori, alla Germania e alla sua cultura sindacale che ha reso possibile un'intesa per la ridefinizione proporzionale delle retribuzioni in vista di una maggior occupazione. E ripensiamo ai contratti di solidarietà per spalmare la domanda di lavoro su più persone. In generale, servono soluzioni per condividere il rischio della crisi e le responsabilità. Soluzioni inclusive, che riducano le distanze tra imprenditori e lavoratori, tra chi ha lavoro e chi no, che premino chi vuole e può dar di più (vedi Mondadori a Cles) e però non escludano nessuno. Parliamone in fabbrica il 17 marzo.

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