«Io, sopravvissuto alla follia nazista, ho perdonato. Ma non dimentico»

Trento. «È falso che l’odio che proviamo dentro di noi non possa essere represso e cancellato. Io ho odiato ma a 18 anni ho risolto il problema. L’odio non avvantaggia nessuno. Ho perdonato, non...



Trento. «È falso che l’odio che proviamo dentro di noi non possa essere represso e cancellato. Io ho odiato ma a 18 anni ho risolto il problema. L’odio non avvantaggia nessuno. Ho perdonato, non dimenticato. La mia “fortuna” non è stata “solo” l’essere sopravvissuto ma anche finire ad Auschwitz-Birkenau a soli 11 anni. Poi ho avuto la possibilità di modellare la mia personalità. E ho vissuto una bella vita».

Oleg Mandic finì nel lager nazista insieme alla mamma e alla nonna. Era stato “prelevato” ad Abbazia, in Croazia (allora italiana), dove viveva con la famiglia. Una prigionia politica, visto che il padre e il nonno stavano con i partigiani di Tito che combattevano l’invasione nazista e l’occupazione fascista.

Oggi alle ore 11 al teatro Sociale Mandic incontrerà gli studenti trentini e dialogherà con Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione museo storico del Trentino e con la giornalista Denise Rocca. Sono attesi 1200 ragazzi tanto che una parte di loro seguirà la diretta in streaming dalla sala della Cooperazione. L’appuntamento, come quello di ieri sera alle Gallerie di Piedicastello, è organizzato dalle associazioni Terra del fuoco e Treno della memoria in collaborazione con la Fondazione. Mandic ha oggi 87 anni, vive ad Abbazia dopo aver fatto per cinquant’anni il giornalista. Ha un nome slavo, Oleg, perché la madre l’ha partorito, volutamente, nella parte al tempo a maggioranza croata di Fiume, distante pochi chilometri da Abbazia.

Nel 1933 l’esercito di Mussolini occupava quelle terre e ai nuovi nati venivano dati nomi italiani ma per Oleg non c’era corrispettivo. Oleg Mandic è stato l’ultimo bambino ad uscire vivo da Auschwitz dove era stato deportato nel 1944. Chiudendosi dietro le spalle il cancello del campo, a pochi minuti da mezzogiorno di venerdì 2 marzo 1945, dopo otto mesi di detenzione. Lo ripresero in un filmato i Russi che avevano liberato il lager. Che ci fossero quelle immagini l’ha scoperto anni dopo. «Sì, è vero, ho fatto una bella vita – riflette – però ci sono stati e ci sono ancora alti e bassi. Quando succede di non sentirmi bene salgo in macchina e torno ad Auschwitz. Lo faccio a fini terapeutici, diciamo. Mi siedo sui binari e guardo gli alberi. E vedo in tutte le foglie le anime di chi non ce l’ha fatta, di chi non ha avuto la mia fortuna. Il giorno dopo riparto che sto meglio».

Per anni non ha raccontato la sua storia, come successo anche ad altri sopravvissuti, come Liliana Segre. Poi il suo caporedattore, al giornale, era il 1955, glielo ha chiesto, anche in malo modo, bruscamente. Di scrivere un servizio. Dicendogli che «il suo trauma apparteneva all’umanità, che era suo dovere parlare anche nei confronti di chi non ce l’ha fatta, che doveva raccontare la verità». Da allora non si è più fermato. È stato testimone. In Jugoslavia come in Italia dove, a Siena, il padre si era laureato prima di andare ad insegnare sociologia all’università di Zagabria.

Oleg Mandic viene da una terra, quella ex jugoslava, massacrata dalle guerre degli anni Novanta. Le cui ferite sono ancora presenti. La carneficina di Mostar, l’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica. E molto altro di inenarrabile per crudeltà ed efferatezza. «Quando mi invitano a qualche cerimonia in ricordo di questo o quel fatto – sottolinea – mi offendo nel sentir dire “che non deve succedere mai più”. Perché, nella realtà, certe bestialità succedono ogni giorno nel mondo. Quello che dico è che chiunque abbia la possibilità di incidere sulla Storia lo faccia perché certe cose accadano almeno una volta di meno rispetto a quanto invece succede. Io, per quanto mi è possibile, ci provo».

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