In corsia per 40 anni: il Santa Chiara saluta «Sandokan»

Fabio Faifer, figura storica in Chirurgia, ha visto cambiare la medicina: «Dalle siringhe bollite ai robot»



TRENTO. L’ultima volte che gli avevamo chiesto di «contare» i pazienti che aveva accudito era il 2005 e lui aveva sentenziato: 30 mila. Da allora sono passati sette anni (e chissà quanti altri pazienti) ma da ieri anche lui è stato «costretto» a dire basta. Stiamo parlando di Fabio Faifer, infermiere di chirurgia di prima divisione per 38 anni e infermiere da quasi 40. Una vita in corsia tanto che lui considera i corridoi del suo reparto un po’ casa sua. Una casa che ieri ha salutato per l’ultima volta con il camice addosso. «Ancora non me ne rendo conto. Non riesco a razionalizzare che domani mattina non suonerà più la sveglia, basta notti, basta domeniche in corsia. Mi sembra quasi impossibile».

Se si è stati anche una sola volta nella prima divisione della chirurgia del Santa Chiara, è difficile non ricordarsi di Faifer. Il suo aspetto certo lo rende unico e particolare tanto da avergli fatto guadagnare nel corso degli anni l’appellativo di «Sandokan», il suo modo di lavorare e di rapportarsi ha reso un po’ meno pesanti tanti ricoveri. E lui è anche un po’ la memoria storica del reparto. «Ho visto cambiare in maniera radicale il modo di lavorare in chirurgia con risultati positivi ma anche negativi. All’inizio c’erano anche 100 ricoverati in reparto con letti ovunque anche sui corridoi. Ora siamo a meno della metà e le stanze che una volta ospitavano dieci letti, adesso ne hanno 4. Una volta si faceva la punta agli aghi, si bollivano le siringhe. Ora è tutto monouso, una rivoluzione. E si operava anche tutto mentre ora tante cose passano per la laparoscopia, c’è la robotica, gli interventi non invasivi, gli studi sul non dolore». E questi sono i grandi passi in avanti della chirurgia. «Ma un po’ si è perso in umanità. Una volta - spiega Faifer - avevi più tempo da passare con i pazienti, adesso c’è la burocrazia che tanto ruba a questo aspetto».

Per tutti questi anni Faifer ha sempre lavorato con passione. «È sempre stato - spiega - il mio lavoro, che ho voluto fare con tenacia e del quale non mi sono mai stufato. E non ne sono stufo neppure adesso. Per me c’è sempre stata una regola d’oro: i miei problemi restano fuori dalla porta dell’ospedale e anche nei momenti più difficili, di lavoro più intenso deve esserci un momento per un sorriso». Il momento più duro per Faifer è stato nel dicembre scorso quando sono venuti a mancare, a poca distanza l’uno dall’altra Ambrogio Helfer, il professore con il quale aveva iniziato a lavorare e al quale era molto legato, e la collega Tiziana Dolzan, con la quale aveva diviso tanti turni.

E ora c’è la pensione con due desideri: «Una triko, una moto a tre ruote, e tanti viaggi su è giù per l’Italia». (m.d.)

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