festival dell'economia

Il grido d’allarme di Gregotti: «Adesso basta con le archistar»

In un Sociale gremito l’architetto ottantottenne ha dato una dura sferzata: «C’è chi cerca solo di fare marketing, altrimenti come sono nate certe periferie invivibili?». Mario Botta: «Gli spazi vanno capiti»


di Pierluigi Depentori


TRENTO. Vittorio Gregotti non le ha mandate a dire ieri sera al Festival dell’Economia, in quel “luogo del bello” chiamato Teatro Sociale, alla chiusura della prima giornata del Festival dell’Economia sul palco assieme a Mario Botta. «Basta coi progetti sorprendenti fatti da uomini marketing più che da architetti», ha ammonito Gregotti. «Basta cercare di lodare il potere politico ed economico, basta ai burocrati trasformati da architetti». E poi il grido di dolore per le periferie, le banlieue francesi ma anche quelle americane, e quelle italiane, autentici alveari urbani dove ogni concetto di vivibilità ha ceduto il passo al profitto, a Roma come a Milano ma anche come a Trento nord.

E pensare che Gregotti era stato chiamato proprio a ripensare Trento nord, con le sue maxi torri che sembrano ormai un sogno dimenticato di ridare vita a una periferia che preoccupa anche il capoluogo trentino. «Quella di oggi è un’architettura frantumata, le nostre periferie sono delle ideologie da demolire, ancor prima che delle costruzioni». Ma Gregotti non si è fermato qui: «L’architetto? Ormai è sempre più accessorio, una specie di illustratore di progetti già pensati da altri, senza alcun vero interesse verso il contesto in cui è calato». Apriti cielo. Un grido d’allarme appassionato da chi vede appassire la Bellezza, e da chi non ha alcuna intenzione di fermarsi e rassegnarsi a 88 anni suonati e crede ancora che «il bello è la luce del vero».

È stato un confronto appassionato e sincero quello tra il maestro e l’allievo, tra un Gregotti ottimisticamente pessimista e un Botta pessiministicamente ottimista. Due che di spazi e di crescita se ne intendono, una vita passata a cercare la bellezza in ogni angolazione diversa, e in ogni angolo del mondo, in Giappone come in America, ma anche in Italia, e naturalmente in Trentino (Botta è il papà del cupoloso Mart, tra l’altro). Il maestro e l’allievo, perché Botta ha imparato i segreti del mestiere proprio da Gregotti prima di spiccare il volo con ali sue.

E a Mario Botta è toccato il compito di provare a raccontare l’architettura che dà speranza e che funziona, dopo gli affondi di Gregotti. E citando Le Corbusier, ha chiarito che gli spazi vanno capiti e che soprattutto vanno “presi” nel senso antropologico del termine: «Dobbiamo tornare ad affrontare con forza la dimensione civile di ogni progetto, perché l’architetto deve necessariamente tentare di migliorare, col suo lavoro, i luoghi della vita collettiva, senza alcuna grossolanità. Le città hanno un carattere vivo, che si muove, e perdere la capacità di orientarsi negli edifici significa perdere la capacità di abitare».

Sulle periferie, soprattutto quelle italiane cresciute pezzo dopo pezzo senza soluzione di continuità, Gregotti e Botta sono stati unanimi nel dire che s’è superato ogni limite di decenza. Ma è stato l’anziano Gregotti a sentenziare ancora, e quasi definitivamente: «Le abbiamo frantumate noi, e trovare delle soluzioni non sarà semplice, o forse sarà addirittura impossibile».













Scuola & Ricerca

In primo piano