EMERGENZA TERREMOTO

«I nostri occhi continuano a cercare Renzo e Marco»

Il pilota Piergiorgio Rosati è in Nepal da due settimane e porta aiuti e soccorsi E ieri la nuova scossa di magnitudo 7.4: «Volavo schivando la polvere delle frane»


Mara Deimichei


TRENTO. «I miei occhi, i nostri occhi, continuano a cercarli». Piergiorgio Rosati, pilota dell’elisoccorso provinciale, è in Nepal dal 26 aprile, il giorno dopo il terremoto che ha portato morte e distruzione. Doveva trascorrere le ferie addestrando piloti locali ai soccorsi a quote altissime, ma ha lasciato perdere. E ha iniziato ad aiutare chi ne aveva bisogno e portare riso e teli a chi era rimato senza nulla. Ma i suoi occhi, come racconta, non smettono mai di cercare Renzo Benedetti e Marco Pojer, i due trentini che sono stati sorpresi e uccisi da una frana sul sentiero del Langtang Trek. E assieme a lui ci sono i due tecnici del soccorso alpino, Franco Nicolini e Massimiliano Zortea.

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Nelle foto scattate dal pilota di elisoccorso Piergiorgio Rosati, il racconto dei giorni successivi al terremoto che ha portato morte e devastazione in Nepal. Il trentino è arrivato nello stato asiatico il giorno successivo il sisma e ha subito iniziato a lavorare (ai comandi dell'elicottero) per soccorrere i feriti e portare aiuti a chi ha perso ogni cosa.

È arrivato in Nepal il giorno dopo il terremoto e ha deciso di restare...

Sono un soccorritore e sto facendo quello che so fare. E quindi mi sono messo a disposizione.

Lei lavorava con Oskar Piazza ed è stato lei assieme a Giampaolo Corona a ritrovarne il corpo.

Oskar era uno dei miei migliori amici. Parlavamo poco, ma assieme abbiamo fatto tanto. Ho qui con me una felpa che mi aveva dato lui la prima volta che sono partito per il Nepal, terra che conosceva benissimo. Poi c’è stato il terremoto. Prima di andare a cercarlo abbiamo ascoltato attentamente le parole di Pino Antonini, il marchigiano che faceva parte della stessa spedizione e si è salvato. È stato in grado di darci la posizione precisa del corpo di Oskar, di descrivere come era vestito, e il colore della lamiera che copriva il cumulo di sassi in cui era stata trasformata la casa. Quando siamo arrivati nel villaggio, siamo corsi verso quel cumulo. È stato difficile raccogliere i corpi di Oskar e Gigliola. Come soccorritori siamo abituati alla morte, ma quando perdi un amico, è tutto diverso.

Come è organizzata la sua giornata?

Una giornata tipo non esiste. La sveglia suona fra le 4 e le 6 del mattino e poi si inizia a volare. Solitamente la base è a Kathmandu ma può succedere di dormire fuori dalla capitale. Ad esempio ho passato una notte in una sorta di compound militare dove non c’erano letti ma ci si riposava sul pavimento protetto solo da dei tappeti sotto un tetto di lamiera. Si va dove si deve andare. Al massimo possiamo volare per sette ore al giorno che possono diventare otto se si fanno dei soccorsi. E ogni sette giorni di lavoro, ce n’è uno di riposo obbligatorio. Con l’elicottero ci si muove agilmente: riusciamo a portare generi di primo soccorso anche nei posti più lontani e disagiati e soccorrere i feriti.

Come vede dall’alto il Nepal?

La situazione è tragica, difficile descriverla. Penso alla regione del Langtang. Il terremoto ha cambiato radicalmente l’orografia della zona. E ci sono posti, lontani dalla capitale, dove voli sopra decine e decine di villaggi abbandonati. Si vede ogni tanto una gallina e delle lamiere sopra a dei cumuli di sassi. Quelle erano le case.

La gente nepalese come sta vivendo questa tragedia?

«Ho perso tutto ma vado avanti». Questa è la frase che mi sento ripetere. È un popolo fantastico che ha subito cominciato a ricostruire, a pulire i mattoni uno per uno per rifare la casa che è andata distrutta. Sono incredibili. Anche nei giorni immediatamente seguenti al terremoto quando arrivavamo in questi posti sperduti per portare aiuti e soccorrere i feriti, loro ci accoglievano col sorriso e insistevano per offrirci quel poco che avevano. Loro, messi in ginocchio da una catastrofe, volevano dare qualcosa a noi! Sono un popolo pieno di dignità.

Lei sa dire quante persone ha soccorso in queste due settimane?

Non ne ho la minima idea. Ne possono portare al massimo sette per volo, ma è impossibile dare un numero. Tanti, quello è certo, ma le dimensioni di ciò che è successo non si possono immaginare. Ho letto che si stimano 7 mila morti. Ma potrebbero essere anche 15 mila. Quando si trovano corpi di stranieri inizia la procedura che prevede il coinvolgimento di ministeri e ambasciate, ma quando la terra restituisce cadaveri nepalesi, questi vengono anche bruciati subito. Cadaveri che non entrano in nessuna statistica. Un giorno, vicino all’elicottero che piloto, c’erano 70 corpi bruciati. Ma non si può fare altro: a Kathmandu si stanno già registrando i primi casi di colera.

Che tipo di aiuto serve al Nepal in questo momento?

Soldi. Nella capitale i prezzi di riso, sale e zucchero - ciò di cui la gente ha bisogno - sono triplicati. Ci sono tante associazioni magari piccole ma organizzate che comprano fuori riuscendo a prendere di più con la stessa cifra. E poi la gente, quella che abita lontano dalla capitale, ha bisogno di teli di nylon. Non vogliono le tende perché in quelle non si può cucinare. Ma i teli sono preziosi: fra due settimane inizierà la stagione dei monsoni.

Ieri c’è stata una nuova scossa di magnitudo 7.4. Levi dove si trovava?

Ero in volo: ho lavorato schivando la polvere delle frane.

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