Cordoglio mondiale per Mario Richard

Il base-jumper sarà cremato: l’urna andrà negli Usa. Il trentino Hoffer: «Se continui a cercare il tuo limite prima o poi lo trovi»


di Mara Deimichei


TRENTO. Le frasi sono in inglese, in francese, in italiano, lingue diverse per raccontare la stessa tristezza per la morte di Mario Richard, il canadese con passaporto americano morto lunedì mattina dopo un lancio con a tuta alare dal Sass Pordoi. Un tragico incidente che ha avuto un’eco mondiale, rilanciato anche dalle maggiori riviste americane del settore, segno di quanto fosse conosciuto e stimato Richard. Frasi di cordoglio, frasi di sostegno per la moglie Steph Davis che dal Pordoi si era lanciata prima di lui e che ha sperato fino all’ultimo che ci fosse una speranza per quello che era il suo compagno di vita e di avventura. Ma quel sottile filo si era spezzato all’imbocco della forcella del Piccolo Pordoi, forcella che Richard non è riuscito a superare. Ieri mattina Steph Davis è ripartita per gli Stati Uniti, per lo Utah dove assieme a Richard aveva fatto della passione per i lanci un lavoro. Lui sarà cremato probabilmente lunedì e poi tornerà anche lui a casa, nell’ultimo viaggio.

E le imprese di Mario Richard e sua moglie le conosce anche lo storico base-jumper trentino Bepi Hoffer che da sei anni ha lasciato i lanci per diventare uno skipper. E infatti quando lo raggiungiamo al telefono è in barca, a Portoferraio, dove è appena rientrato dalle Baleari. «I video di Richard li ho visti, certo - spiega - e lo conoscevo visto che era un personaggio di un certo spessore nel mondo dei base-jumper. Quando ho saputo della sua morte mi è spiaciuto molto. Non posso non pensare, però, che se continui ad essere al limite, prima o poi lo trovi. Ed è così che accadono queste disgrazie, forse per un continuo bisogno di vivere nuove emozioni, di superare domani quelle provate ieri. Ora c’è, in tutto il mondo, tantissima gente che salta ed è quindi normale che ci siano anche più vittime. E poi c’è una cosa che è cambiata rispetto a quando io mi lanciavo. Allora il percorso era molto lento, si faceva un passo alla volta mentre ora, specialmente i più giovani, sono tentati dal bruciare le tappe. Tutto appare facile - e in un certo senso lo è anche, ma anche in queste attività è necessaria tanta, tantissima attenzione».

Bepi Hoffer la sua prima tuta alare l’ha indossata all’inizio del 2000. «Era quella di Patrick de Gayardon - racconta - ma non è nemmeno paragonabile a quella che usano ora. La mia era per i lanci dall’elicottero o col paracadute, ma non era certamente adatta per il lancio dalla montagna. Poi l’evoluzione tecnologica è andata avanti e siamo arrivati a queste tute che io non ho mai provato. E nemmeno mi sono mai lanciato dal Sass Pordoi». Ora i lanci fanno parte del passato, ora c’è la barca che gli permette di mantenere lo stretto - e per lui indispensabile - rapporto con la natura. «Ho smesso sei anni fa - racconta ancora Hoffer - ero in Svizzera e mi ero lanciato. Scendendo ho pensato “adesso è ora di aprire il paracadute” e quando si è aperto mi sono reso conto di essere più in basso rispetto a quello che volevo. E così mi sono reso conto che era passato troppo tempo nella trasmissione dati al cervello. E ho smesso».

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