sanità

Cancro alla prostata, scoperta trentina

Nuovi scenari nella lotta al tumore “trasformista”. Grazie al Cibio dell'Università di Trento e a due atenei americani



TRENTO. Perché alcuni pazienti affetti da cancro alla prostata allo stadio avanzato ad un certo punto della cura smettono di rispondere alle terapie? Attorno a questa domanda si è sviluppato lo studio condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Trento in collaborazione con la Weill Cornell Medicine University di New York e il Dana Farber Cancer Institute di Boston. La loro analisi ha condotto ad un’importante scoperta, pubblicata ieri da Nature Medicine, la rivista di medicina sperimentale più prestigiosa al mondo. Una scoperta che apre a nuove possibilità terapeutiche ma che potrebbe permettere anche di aumentare l’efficacia nella diagnosi del cancro neuroendocrino alla prostata.

Il carcinoma prostatico è il tumore più frequente nella popolazione maschile dei Paesi occidentali e la terza causa di morte per tumore. Nel 2015 sono stati diagnosticati in Italia circa 35,000 nuovi casi (dati Airc sul 2012). Per trattare pazienti con tumore allo stadio avanzato oggi si impiegano solitamente terapie farmacologiche (che attaccano l’ormone androgeno o il suo recettore). Benché inizialmente efficaci, queste terapie a lungo andare si rivelano spesso inutili; alcuni pazienti sviluppano una resistenza al trattamento in seguito alla trasformazione di un classico cancro alla prostata (detto adenocarcinoma) in un cancro detto neuroendocrino.

Come e perché avvenga questa trasformazione, sono aspetti su cui la comunità scientifica finora si è interrogata. La svolta nella comprensione di questi meccanismi arriva da questo nuovo studio. I ricercatori hanno messo in campo le più avanzate tecnologie di sequenziamento del dna, dell’rna e dello stato biochimico delle sequenze per esaminare il fenomeno della resistenza ai farmaci in un ampio gruppo di oltre un centinaio di pazienti dell’Englander Institute for Precision Medicine.

«Per sfuggire al successo del trattamento farmacologico, un tumore letteralmente si trasforma in un altro», spiega Francesca Demichelis, professoressa al Centro di Biologia Integrata (Cibio) dell’Università di Trento che ha diretto lo studio. «Alcune cellule cambiano natura e prendono il sopravvento sulle altre. È come se si fossero costruite una sorta di corazza e nuove modalità di sostentamento per sopravvivere. Imparano cioè a fare a meno del loro sostentamento primario precedente. In sostanza, è come se cambiassero dieta per difendersi. Per frenarle, l’unico modo è interrompere il trattamento e cambiare protocollo farmacologico. I dati che abbiamo generato possono aiutare l’identificazione di molecole in grado di attaccare queste cellule finora intoccabili».













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