Amartya Sen: "La povertà rende schiavi"

Il Nobel a Trento: i governi non fanno abbastanza contro la disoccupazione


Ubaldo Cordellini


TRENTO. «Senza una crescita sostenuta non si riduce il debito». E' appena arrivato in treno, Amartya Sen, il premio Nobel per l'economia 1998, e già snocciola la sua ricetta. Per lui «i livelli di disoccupazione in Europa sono intollerabili» e la «povertà è mancanza di libertà». Prima di tenere la lectio magistralis al Teatro Sociale, si ferma a parlare con i giornalisti.
L'incontro si tiene alla Federazione della Cooperazione, che ha voluto e organizzato l'evento per poi inserirlo all'interno del programma del Festival dell'Economia. Amartya Sen, con il suo sorriso timido, ha incontrato anche i cooperatori trentini nella sala don Guetti. Le sue ricette sono chiare e si basano sul fatto che senza crescita non si esce dalla crisi. Sen ha anche ricordato con nostalgia la sua prima visita a Trento, nell'ormai lontanissimo 1954, quando era ancora uno studente innamorato della pittura rinascimentale italiana.
Professor Sen, cosa devono fare i governi per ridurre il debito?
Per ridurre il debito bisogna avere una crescita elevata. Con la finanza il problema non si risolve.
L'Italia è tra i paesi europei che crescono di meno. Cosa si deve fare per crescere?
Io non conosco il vostro paese abbastanza bene per dare ricette. Quello che posso dire è che dopo la seconda guerra mondiale la crisi è stata superata grazie a una forte crescita economia. Anche nel 1992 il presidente americano Bill Clinton è riuscito a superare una grave crisi di debito grazie a una crescita impetuosa. Del resto, la povertà è la negazione della libertà, rende impossibile vivere in modo dignitoso.
Professore, perché i paesi emergenti sono usciti meglio di Europa e Stati Uniti dalla crisi?
Cina, India, Brasile, ma anche Sudafrica, sono usciti meglio dalla crisi perché non hanno fatto le scelte sbagliate dei paesi occidentali. Hanno basato la loro economia sul manifatturiero, sulla produzione e non sulla finanza.
Il Trentino è una piccola terra, secondo lei potrà resistere alla globalizzazione?
Certo. Questa è una regione che ha una tradizione cooperativa molto peculiare che la rende molto forte. La prima volta che sono venuto a Trento era il 1954. Ero ancora studente a Cambridge e avevo una grande passione per la pittura rinascimentale italiana. Trento è stata l'ultima tappa del mio viaggio in Italia. Ci sono stato due giorni dormivo in un ostello della gioventù in collina che non ci sarà neanche più. Ho parlato con molte persone e ho conosciuto il vostro sistema cooperativo. Devo dire che è stato un soggiorno che mi ha arricchito.
Professore quali sono le politiche anticrisi migliori?
Ci sono tante cose da fare. La ragione principale della crisi sta nell'eccesso di deregulation che avrebbe richiesto misure più radicali. Si può fare molto di più. Non si è fatto abbastanza per l'occupazione.
E come si combatte la disoccupazione?
La disoccupazione in Europa è un problema da molto tempo. Paesi come l'Italia, ma anche come la Spagna, hanno raggiunto tassi del 20 o 30 per cento. E' inaccettabile la tolleranza nei confronti della disoccupazione. Purtroppo con la crisi anche gli Stati Uniti hanno iniziato ad avere livelli molto alti di disoccupazione. Questo stato di cose andrebbe combattuto duramente, ma invece non si fa molto. Alla luce di quanto ho letto, in Italia c'è stata una flessione del dibattito su questo tema. Però, sta a noi risolvere le cose.
Con la globalizzazione le differenze tra ricchi e poveri aumentano?
Non penso che il tasso di disuguaglianza aumenti, però la differenza tra ricchi e poveri è lo stesso intollerabile. Dobbiamo cambiare completamente ottica, non si possono perseguire le stesse politiche. Purtroppo, invece, dobbiamo constatare che la politica non si occupa di ineguaglianza. Eppure la libertà personale è strettamente collegata alla possibilità di scegliere e, quindi, all'autonomia economica. Gli stati si devono impegnare di più su questo fronte e sul fronte dell'occupazione per uscire dalla crisi.

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