Afghanistan, gli alpini tornano a casa

Julia premiata dal generale Petraeus, ma i talebani fanno ancora paura


dall'inviato Ubaldo Cordellini


HERAT. Gli alpini della Brigata Julia se ne vanno da Herat. Tra queste montagne arse dal sole, le penne nere hanno pagato un prezzo altissimo: sette soldati morti, cinque dei quali vittime di quelle mine artigianali che qui chiamano Ied, e due uccisi in scontri a fuoco. Un prezzo pesante per un'operazione difficile, delicatissima, che è servita per stabilizzare l'ovest dell'Afghanistan.
E con la primavera è già attesa un'altra offensiva dei talebani. Per combatterla il generale David Petraeus, comandante di tutte le forze alleate, ha lanciato la nuova parola d'ordine: «Dobbiamo conquistare i cuori e le menti degli afgani». Come dire: meglio costruire scuole, pozzi e moschee che contare i morti.
Con i comandanti, infatti, guai a parlare di guerra. I proiettili da venti millimetri sulle fiancate degli elicotteri d'attacco Mangusta o l'ansia dei soldati quando si cammina allo scoperto però dicono il contrario. Gli alpini hanno avuto le loro belle gatte da pelare soprattutto nel Gulistan, una valle stretta che si insinua tra le montagne verso l'Helmand, roccaforte dei talebani, e dalle parti di Bala Murghab, appollaiati nei fortini, qui li chiamano Cop (combat outpost), che dominano la strada che scende dal Turkmenistan, snodo cruciale per il traffico di droga che qui è come il petrolio, visto che l'Afghanistan produce l'80 per cento dell'oppio mondiale. Matteo Miotto, alpino di Vicenza, è morto in uno di questi fortini, ucciso da un proiettile vagante. Da queste parti, sparano tutte le notti. Non veri e propri scontri a fuoco, ma colpi esplosi spesso a casaccio, come spiegano tre soldatesse del 7º alpini Belluno, le caporali Parodi, Russo e Pasquotti, 25, 24 e 21 anni: «Quando calava la sera, arrivavano colpi. Sparavano per spaventarci, ma questo è il nostro lavoro».
Il pericolo maggiore è costituito dagli Ied, una sigla che sta a indicare le mine artigianali. Per far saltare un Lince, il veicolo blindato usato dai soldati italiani per il pattugliamento, bastano venti chili di fertilizzante stabilizzato a volte anche con l'urina oppure con polvere di alluminio. Il capitano Massimo Ranzani del 5º alpini di Vipiteno è morto così il 28 febbraio. Stava tornando da una missione organizzata per distribuire medicinali in un villaggio a 50 chilometri da Shindand. Per il colonnello Coradello, trentino di Mattarello, è stato un grosso dolore: «Era un ufficiale competente e umano». In sei mesi, gli alpini di Vipiteno di stanza nella zona di Shindand, un'area con 800 mila abitanti, hanno distribuito medicinali per 160 mila euro.
Il colonnello Pierluigi Scaratti, comandante del 2º reggimento genio di Trento, ha coordinato, invece, i lavori di ricostruzione di una scuola femminile nel Gulistan bruciata dai talebani e la realizzazione di un acquedotto che serve 8 mila persone. Entrambi i progetti sono stati finanziati dalla Provincia di Trento. Scaratti, che comandava gli artificieri, tre compagnie di stanza a Trento, che hanno neutralizzato centinaia di mine improvvisate, racconta: «Non ci sono solo i talebani. Gli Ied li fanno mettere anche i signori della droga che non vogliono essere disturbati da noi, o i capi villaggio in lotta contro altri villaggi». Insomma, il caos. Il presidente Amid Karzai ha già annunciato che la transizione è avviata. Entro luglio 7 città tra cui Herat e la caldissima Lashkar Gah dovranno passare sotto il controllo delle forze afgane. I prossimi mesi diranno se è una velleitaria utopia.

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