Alla ricerca del lato oscuro 

Rflettori sul’identità maschile. La psicologa Giuseppina Pacilli domani a Trento per un evento che vuole indagare la violenza di genere «La mascolinità rimane ancora una categoria sociale “biologizzata” dal patriarcato, ovvero da un sistema che legittima le disuguaglianze»


Elisa Tessaro


Trento. Lo sguardo glaciale e ineffabile di Clint Eastwood si staglia sulla copertina del libro “Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità” (il Mulino, 2020). Il riferimento a quest’ icona, congelata nel momento più alto di giovinezza e forza fisica, potrebbe sembrare datato. Oggi Clint è un anziano signore di novant’anni. Eppure, l’immaginario che riesce a rivelare è incredibilmente attuale. Giuseppina Pacilli, docente di psicologia sociale all’Università di Perugia ha scritto duecento fittissime pagine che indagano gli stereotipi, personali e collettivi, che imbrigliano ancora oggi, nel 2020, i ruoli di genere convenzionali. Il testo ha due grandi pregi. Il primo di illuminare la sfera maschile in tutte le sue contraddizioni e problematicità. Il secondo di spostare la questione sul piano dei rapporti di potere. Domani venerdì 27 novembre sarà possibile entrare nel multiforme universo attraversato dall’autrice, fra le relatrici dell’evento online di Unitn (che presentiamo separatamente, ndr)“Se questo è un uomo. Identità maschili e violenza di genere”. «Nel raccontare il libro, mi piace soffermarmi sul titolo perché sintetizza i contenuti del mio lavoro e il modo in cui affronto la mascolinità. Per esempio, partendo dal discorso sul “lato oscuro” - o meglio sul suo opposto - il versante in piena luce, quello dei vantaggi economici, politici e sociali di cui da secoli gli uomini si avvalgono. Il punto che cerco di approfondire è il costo molto alto, a livello psicologico, che però i maschi devono pagare per mantenere il loro ruolo privilegiato». La nostra società, secondo questa lettura, chiede loro di dedicarsi a un compito paradossale: da un lato li sprona a sbarazzarsi delle loro credenze sessiste riguardo alle donne, dall’altro però continua a forzarli in un modello tradizionale di mascolinità duro e puro per poter essere apprezzati socialmente. Ma cosa significa essere “uomini duri”? «La durezza riguarda la capacità di un oggetto di scalfire altre cose senza essere danneggiato - chiarisce l’autrice - è una qualità che descrive meglio una cosa, un oggetto inanimato, non una persona. Gli individui sono fatti di una complessità emotiva che spesso è sacrificata nella socializzazione di genere, nel modo, quindi, in cui maschi e femmine sono educati e diventano poi adulti. Anche se nel corso del Ventesimo secolo le neuroscienze e le scienze psicologiche hanno fatto crollare, sotto il peso dell’evidenza, le differenze tra uomini e donne in termini psicologici e comportamentali, la mascolinità rimane ancora una categoria sociale “biologizzata” dal patriarcato, ovvero da un sistema che legittima le diseguaglianze sociali e ce le fa percepire come inevitabili perché…“siamo fatti così”.

La mascolinità precaria.

Gli uomini, ad esempio, sono da sempre considerati più razionali delle donne. La socializzazione a ruoli diversi si riflette anche sul rifiuto dell’emotività e dell’aderenza, da parte dei maschi, a dei canoni antifemminili. L’autrice affronta anche quella che viene definita “mascolinità precaria”, un costrutto che descrive l’affannoso tentativo di offrire continue prove della propria virilità, in un percorso che si avvita su se stesso, tutt’altro che libero e autonomo. Accade così che il bisogno compulsivo di sopprimere frammenti di femminilità porti con sé pesanti strascichi sulla salute psicologica degli uomini: dall’incapacità di chiedere aiuto, alla scarsa attenzione alla salute, al silenziamento emotivo. E poi, forse, non se ne parla ancora abbastanza: un campanello d’allarme su cui porre attenzione in termini culturali è il benessere dei maschi. Nel 2019, riporta l’autrice, si sono tolte la vita 800.000 persone. In questo triste conteggio, la percentuale degli uomini risulta essere doppia rispetto a quella delle donne.

La depressione maschile.

La depressione maschile è spesso sottovalutata, in primis da chi ne soffre; gli uomini non ammettono la propria vulnerabilità e, rispetto alle donne, ricorrono molto di più a sostanze stupefacenti per gestire le proprie difficoltà. Torna anche qui l’asimmetria di genere: e questo ci dice qualcosa rispetto alla capacità di intercettare in modo adeguato il malessere maschile. La rabbia, associata all’aggressività, sono percepite dagli uomini come manifestazioni più accettabili rispetto alla paura o all’ansia. L’autrice condivide a questo proposito un’immagine capace di sintetizzare un mondo: “Ho visto un post su Facebook: la foto di un bagno di un locale in cui un muro rotto da un pugno è stato incorniciato. I proprietari hanno poi aggiunto una didascalia: “Mascolinità fragile. Artista sconosciuto”. Pensando a quel muro rifletto sulla violenza di un uomo che ha provocato un danno, ma soprattutto penso al dolore che si è inferto. Un esempio di mascolinità debole e tossica».

I modelli di genere.

Ma è possibile sovvertire questi modelli di genere tradizionale? E soprattutto: è necessario farlo? Secondo Pacilli si tratta di iniziare a ragionare in termini di benessere delle persone, oltre le categorie di maschile e femminile: «Questi modelli possono essere delle trappole. A volte le persone vi aderiscono e pensano di stare bene perché si sentono “normali”, adatte al ruolo e quindi accettate socialmente. In realtà, le cose sono ben diverse. La stessa suddivisione fra emotività e razionalità non regge in termini psicologici perché i processi cognitivi ed emotivi sono molto più collegati fra loro di quanto pensiamo. Quindi un’idea di essere umano che rispetta se stesso e gli altri è ciò a cui dobbiamo tendere». Il cambiamento però non può avvenire a livello individuale perché vorrebbe dire affidare al singolo il peso di una trasformazione che invece deve essere culturale e politica. È necessario inoltre superare qualsiasi logica patologizzante: “Da psicologa sociale che studia i pregiudizi come qualcosa che può riguardare tutti, penso sia fondamentale cercare di non colpevolizzare le persone. E’ necessario, invece, provare a smontare i propri stereotipi ed essere così agenti di cambiamento. Farlo nel nostro piccolo può essere già un grande miracolo”.













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