DISABILITà

«Una vita in carrozzina. Sfortuna. E tanta rabbia verso chi non capisce»

Vi raccontiamo la giornata tutta in salita di Paolo Simone (49 anni), sviluppatore di software, affetto da una malattia degenerativa


ANDREA TOMASI


TRENTO. «Nella sfiga meglio abitare in Trentino, con l’autonomia speciale, i suoi soldi e i suoi servizi. E io, credetemi, di sfiga me ne intendo, ma questo non significa accettare tutto: le storture del sistema di assistenza, le fisioterapiste o le assistenti poco motivate o i filtri del ventilatore notturno, di cui non posso fare a meno, distribuiti col contagocce. Io non chiedo di essere compatito. Non voglio che mi dicano “poverino”. Voglio vivere una vita il più possibile normale e se questo significa rompere le palle al Comune di Trento, alla Provincia, alla cooperativa o all’Itea... beh io lo faccio». Paolo Simone ha 49 anni e una malattia degenerativa che lo accompagna da quando ne aveva 3: un “regalo” che la genetica ha fatto anche alla sorella. Si chiama atrofia muscolare spinale.

La sua giornata inizia con l’assistente della notte, una ragazza che lo sveglia alle 7.15. «Da sdraiato mi mette seduto. Deve trovare il mio equilibrio, perché basta sbagliare di un centimetro e cado dal letto. Mi mette l’imbrago, mi aggancia coi moschettoni al sollevatore e mi mette sulla carrozzina elettrica». Paolo Simone di lavoro fa lo sviluppatore di software. Ama la tecnologia. Abita in un appartamento domotico di Trento Sud, dell’Itea. «L’operazione sollevatore viene fatta al contrario alla sera: si va a dormire tutti i giorni alle 22.30».

Un sollevatore analogo ce l’ha anche nel bagno: «Quando sono in forze riesco ad agganciarmici da solo con l’imbrago. Se invece, come in questo periodo, sono più debole (e comunque la malattia non migliora, peggiora) dipendo dagli altri. Se ho lo stimolo ad andare in bagno quando l’assistente è ancora in casa, bene... altrimenti devo chiedere aiuto a qualche amico o aspettare che arrivi l’ora di pranzo».

A tavola si servono pietanze morbide, perché fa fatica a masticare: «Quindi pastasciutta molto cotta, tartare, carne macinata o spezzatino, ma solo se è molto, molto tenero». Non è tenera la sua vita, né di giorno né di notte. Nelle ore notturne deve utilizzare un ventilatore con la mascherina per respirare. «Mettendomi sdraiato non ho sufficiente forza per respirare da solo. Questa macchina spinge l’aria nei miei polmoni». Sorride amaro, questo altoatesino (la mamma abita ad Ortisei) trapiantato in terra trentina. Mostra il filtro del ventilatore: «Un elemento da pochi euro per una macchina che ne costa alcune migliaia. Eppure pare che sia diventato un problema averne di nuovi. Una volta di filtri me ne davano dieci all’anno. Adesso ne ho due. Si sporcano facilmente. Al centro di riabilitazione mi hanno detto che non devo lamentarmi e che basta lavarli, ma se li lavo si sfilacciano e non svolgono più la loro funzione. E per me è un bel problema se dovessi ammalarmi».

Fra i vari problemi che deve affrontare registriamo anche un episodio non proprio piacevole di qualche giorno fa: «Ero all’ospedale per la spirometria. La fisioterapista ed io non riuscivamo a coordinarci. Forse lei era di fretta ed io stanco... Fatto sta che ha iniziato ad urlarmi, manco fossimo in caserma. Io dico: “Va bene tutto, ma delle urla faccio volentieri a meno”. Il rischio, per uno come me, che rivendica il diritto di avere una vita un po’ autonoma, è di essere percepito solo come lo scocciatore in carrozzina». Un esempio? «Ad esempio qualche tempo fa mi sono lamentato con la cooperativa che gestiva il servizio di assistenza domiciliare. Ci sono assistenti bravissime, ma ce ne sono altre che non hanno idea del tipo di lavoro che si deve fare. Io capisco la difficoltà di una coop che deve lavorare in un settore dove il personale non è facile da trovare, perché chi opera in questo settore magari preferisce gli orari fissi di ospedali e case di riposo. Per carità, capisco tutto e magari siamo in un periodo in cui c’è un abbassamento generale della qualità del personale e quindi del lavoro, ma forse esiste anche un problema di marketing in questo tipo di impresa: le persone bisogna attirale, motivarle e soprattutto formarle».

Sugli scaffali del suo appartamento in Clarina a Trento ci sono libri sull’autocoscienza, libri motivazionali. Gli abbiamo chiesto se prova rabbia per la sua condizione fisica. Ha risposto così: «Questa cosa (la malattia) è così e non mi arrabbio più, non per questo. Mi arrabbio quando alle persone devo ripetere venti volte di cosa ho bisogno. Mi arrabbio davanti alle persone che non capiscono il disagio e che sembrano far fatica a trovare le soluzioni anche quando sei tu ad indicargliele. Provo rabbia quando vedo che il sistema non mi permette di lavorare: io sono una partita Iva, se supero i 5000 euro annui, supero una fascia di reddito e quindi devo compartecipare di più alle spese per la mia assistenza». Qualcuno potrebbe dire: “Di cosa ti lamenti, in fondo qui da noi va tutto bene”. No? «Io dico che, se non ci fossero queste penalizzazioni in caso legate al reddito, potrei essere una persona attiva, utile a formare ricchezza per la Provincia di Trento. Con le imposte derivanti dal mio lavoro si pagherebbero tutti i servizi di cui usufruisco». Tra questi “servizi” c’è anche la “macchina della tosse”: altra routine giornaliera (dura cinque minuti ma è uno step quotidiano obbligato). «Come ormai avete capito, i miei muscoli sono deboli. Da solo non riesco a tossire, non ne ho la forza. Così questa macchina butta e tira l’aria dai miei polmoni».

C’è tanta tecnologia nella vita di Paolo Simone e - aggiunge lui - c’è anche «tanta incapacità di comprendere». «C’è chi mi dice che dovrei tornare a vivere con la mia mamma e magari con mia sorella. Io dico che, a parte il fatto che mia sorella ha la mia stessa patologia, benché in forma minore, io voglio avere il diritto di vivere una vita da adulto. Ho sempre voluto la mia indipendenza. Vivo fuori casa da quando ho 19 anni. E poi mia mamma, che potrebbe aiutarmi ben poco, magari anche lei ha il diritto a vivere la sua vita. Non ci sono solo le mie sfighe».

 













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