Sei morti in un giorno sul Gran Zebrù

In mattinata la prima tragedia costata la vita a tre alpinisti di Parma e Novara. Poi, attorno alle 14, una seconda cordata di tre alpinisti altoatesini morti a poca distanza



SOLDA. Due fratelli di Vipiteno (Matthias e Jan Holzmann, 26 e 30 anni) e un loro amico di Magrè, nell'Oltradige: sono loro, le vittime della seconda tragedia in poche ore sul massiccio dell'Ortles. Non era ancora svanito lo sconforto per le tre vittime precipitate dal Gran Zebrù di prima mattina che, poco dopo le 14, il soccorso alpino di Solda ha fatto ritorno sullo stesso luogo per recuperare altri tre corpi senza vita, quelli di una seconda cordata che ha ripercorso lo stesso tragico destino.

Il precedente. Con sei morti nello stesso giorno e nel giro di poche poche il Granz Zebrù si sta avvicinando al tragico record del 5 agosto del 1997 quando prima caddero e morirono tre vigili del fuoco ed un loro amico, tutti di Reggio Emilia, e poche ore dopo una guida alpina venostana (la stessa che aveva lanciato l'allarme per la prima disgrazia) con due clienti germaniche.

La prima tragedia. E'  quasi sicuramente da attribuire all’improvviso cedimento del ghiaccio. L’incidente è avvenuto attorno alle ore 8,30 sulla parete del Gran Zebrù (3.857 metri), la seconda vetta più alta del gruppo dell’Ortles che si trova sul confine tra Alto Adige e Lombardia. I tre alpinisti, Matteo Miari, 22 anni, di Parma e Michele Calestani, 43 anni, anche lui di Parma, e Daniele Andorno, 45 anni di Novara, avevano lasciato attorno alle ore 4 il rifugio Pizzini in val Cedèc (sopra l’abitato di Santa Caterina Valfurva in Valtellina), al momento dell’incidente si trovavano a circa 3.500 metri di altitudine, a soli 350 metri dalla vetta.
I tre sfortunati escursionisti sono precipitati nel vuoto per 500 metri. L’allarme è stato lanciato da due compagni d’escursione ma che non procedevano nella stessa cordata. Giunti sul posto con l’elicottero, gli uomini del Soccorso alpino di Solda hanno potuto solo recuperare i corpi senza vita e ricomporle presso la camera mortuaria di Solda, il paese altoatesino ai piedi di Ortles e Gran Zebrù.

Il Gran Zebrù. Ovvero, la Cima del Re:  è il colosso teatro dei due gravi incidentidi montagna, costati la vita a sei alpinisti. Per scoprire le origini del nome bisogna rifarsi a una leggenda medioevale: un sovrano, Johannes Zebrusius, chiamato «il Gran Zebrù», feudatario nel XII secolo della Gera d’Adda (territorio realmente esistente, oggi in provincia di Bergamo). Una montagna dal profilo affilato, una piramide con spigoli dall’inclinazione ardita, oltre i 45 gradi. Domina due valli di alta quota: la Val Zebrù sul versante valtellinese, quindi Lombardia, tributaria della bassa Valfurva in cui confluisce a est di Bormio, e la Valle di Solda (Suldental), quindi Alto Adige, sul versante tirolese, tributaria della Val Venosta.
Il Gran Zebrù è stato teatro anche di battaglia durante la Prima guerra mondiale. Konigsspitze in tedesco, raggiunge i 3.857 metri ed è la seconda vetta per altezza dopo l’Ortles della regione Trentino-Alto Adige. Il confine tra le due regioni passa esattamente per la cima, facendo quindi di essa la più elevata vetta «lombarda» del massiccio, e tra le più alte della regione.

La leggenda. Dice che Johannes Zebrusius, chiamato «il Gran Zebrù», si innamorò (ricambiato) di Armelinda, figlia di un castellano del Lario, il quale però si opponeva alla loro relazione. Al fine di fare colpo agli occhi del padre di lei e convincerlo a dargli la figlia in sposa, Johannes prese parte a una crociata in Terrasanta, rimanendovi per quattro anni. Al suo ritorno però ebbe una sgradita sorpresa: il padre di Armelinda non solo non aveva cambiato parere, ma addirittura aveva concesso in sposa la figlia a un nobile milanese.
Costernato e depresso Zebrusius decise di abbandonare il suo feudo e l’arte della guerra e recarsi in montagna, dove avrebbe vissuto da eremita, scegliendo come dimora la val Zebrù, dominata dalla montagna. Lì visse in solitudine per trent’anni e un giorno, cercando di dimenticare il passato con la meditazione e la preghiera, e quando sentì che stava giungendo la sua ora si sdraiò su un tronco collegato a un congegno di sua invenzione, che fece precipitare sul suo corpo un grande masso bianco, sul quale egli aveva precedentemente inciso «Joan(nes) Zebru(sius) a.d. MCCVII». Tale masso è visibile ancora oggi, al limite inferiore del Ghiacciaio della Miniera.
La leggenda dice che lo spirito del sovrano, purificato dal dolore e da anni di privazioni, salì sino sulla vetta della montagna che divenne il castello degli spiriti meritevoli e del quale l’anima di Zebrusius ne è il re. La prima scalata risale al XIX secolo, protagonista la cordata composta dall’alpinista-esploratore inglese Tuckett, dai fratelli Buxton, anch’essi britannici, e dalle guide tirolesi Biener e Michel il privilegio della prima assoluta, il 3 agosto 1864. Il gruppo seguì la via della cresta est, senza l’uso di ramponi.













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