Rovereto, le foto dentro all'ex carcere

Inaugurata la mostra realizzata con gli splendidi scatti di Raimondo Calgaro, Flavio Cescotti, Stefano Paglia e Andrea Tonezzer. Raccontano una "normale" storia degli istituti carcerari italiani



ROVERETO. Si trova a pochi passi da Corso Rosmini, da tre scuole, dalla vita di tutti i giorni. Ed ha segnato la storia cittadina anche dal punto di vista urbanistico: quando fu realizzato, a ridosso del Tribunale, il carcere si trovava in aperta campagna. Ma è un luogo che per la città non esiste. Un muro lungo il quale parcheggia, un portone di metallo sempre chiuso, un paio di telecamere a riprendere la via, e messe in un’epoca in cui il grande fratello era solo il fratello maggiore. Per duecento anni è stato uno spazio di vita nel cuore della città ma totalmente estraneo. Alieno. E lo è ancora. Pure chiuso da due anni, per lo Stato italiano rimane carcere (manca un decreto di declassamento, ma ottenere una carta con la burocrazia centrale richiede più tempo che costruire un carcere nuovo) e come tale non è nemmeno visitabile, se non previo permesso e accompagnati da una guardia carceraria.

Sono entrati per due mattine (la prima, il 14 febbraio 2012 e la seconda il 7 febbraio scorso) quattro fotografi del Circolo L’Immagine. Sette ore di visita in tutto. Con l’obiettivo di rendere attraverso la loro arte «Il carcere». Almeno per quanto sia possibile comprenderne il senso una volta privato di detenuti e guardie carcerarie.

L’effetto è straniante, come di un luogo all’interno del quale il tempo e la vista sono come sospesi. Alla chiusura della struttura, trasferiti detenuti e guardie carcerarie a Trento, il carcere è stato semplicemente abbandonato. Dalle pareti sono stati divelti i quadri elettrici e dalle celle prelevati le brande e quei mobili che evidentemente potevano essere considerati ancora utilizzabili. Il resto è rimasto lì. E per resto si intende tutto, dalle ciabatte in un angolo ai detersivi nell’armadietto del bagno; dai poster alle pareti ai piccoli oggetti autocostruiti dai carcerati: mensole di fortuna, altarini, portatutto. Sono quegli oggetti, assieme alle scritte sui muri, a testimoniare della vita che si è comunque consumata là dentro. In spazi con funzioni diverse ma accomunati da alcuni segni forti. Su tutti le sbarre, che sono ovunque. Come le finestre troppo alte, dalle quali la luce entra dall’alto, come se si vivesse in una cantina.

Raimondo Calgaro, Flavio Cescotti, Stefano Paglia e Andrea Tonezzer hanno cercato di rendere le proprie emozioni nell’affrontare il carcere sfruttando questi elementi. E ora le offrono alla città nella mostra inaugurata ieri all’urban center. Visitabile fino al 27 aprile.













Scuola & Ricerca

In primo piano