Overdose, giovane di Arco in fin di vita
I genitori del ventunenne, tossicodipendente e con patologia psichiatrica: «Epilogo scritto, mancano risposte al problema»
ARCO. A 21 anni con la vita appesa ad un filo dopo lo sballo. L'ennesimo di una esistenza ancora breve ma profondamente dilaniata dalla tossicodipendenza e dalla malattia psichica. Il giovane arcense, L.I. le sue iniziali, è ricoverato nel reparto di rianimazione dell'ospedale Santa Chiara di Trento da alcuni giorni, dopo essere stato trovato in overdose domenica nel capoluogo e rianimato dopo una lunga ipossia che potrebbe aver lasciato danni irreversibili.
Un episodio che potrebbe essere “catalogato” come possibile nella vita di una persona che imbocca la strada – fortunatamente non sempre senza uscita – della tossicodipendenza. Ma per i genitori di L.I. quello che è successo domenica a Trento, gettando uno sguardo sulla storia del ragazzo, è un epilogo scritto da tempo, un epilogo che attendeva solo di compiersi di fronte all’incapacità del sistema socio-sanitario di offrire risposte adeguate.
Il ventunenne è cresciuto in una famiglia “normale”. Una famiglia composta da mamma, papà e cinque figli. Tutti educati nello stesso modo, ai valori fondanti della vita: etica, lavoro, rispetto e tolleranza. Ma quel ragazzo – a differenza dei fratelli - ha iniziato presto a combattere (e soccombere) contro demoni che nessuno è stato in grado di individuare e domare.
E così è successo quello che spesso capita agli adolescenti in queste situazioni: sedare i demoni con l'alcol e con la droga. Per poi lasciarsi andare, senza inibizioni, a gesti scellerati. Fuori casa e in casa, rendendo impossibile la convivenza con i familiari. Tanto che ormai L.I. viveva ai margini, in una roulotte.
Il giovane si è fatto presto conoscere dai servizi psichiatrici e dalle forze dell'ordine dell'Alto Garda, chiamate tante volte ad intervenire per riportarlo alla ragione in situazioni al limite. Ma ancora minorenne, il ragazzo (definito da chi lo conosce bene “gigione e ingenuo” quando non rapito dai suoi mostri interiori o dalle sostanze) è stato, in una delle tante vicende giudiziarie in cui è rimasto invischiato, prosciolto dalla magistratura minorile perché dichiarato incapace di intere e di volere.
A sottolineare il suo stato, una perizia psichiatrica che lo ha definito «soggetto afflitto da modificazioni rilevanti della personalità con sindrome da sostanze psicoattive e alcol». In termini tecnici, ha la cosiddetta «doppia diagnosi».
Cinque ricoveri coatti e due tentativi di inserimento in comunità (da una è letteralmente fuggito, nella seconda non è neppure entrato dopo i primi colloqui) sono serviti solamente a confermare quello che alle persone a lui vicine è chiaro: il ragazzo non vuole farsi aiutare. Tanto che la sua vita è diventata come un circolo vizioso che nessuno è riuscito ad interrompere: sballo, episodio eclatante, ricovero coatto, sedazione e dimissione.
E proprio questo, secondo i genitori, ha messo in luce la debolezza del “sistema”, incapace di dare una risposta normativa prima di tutto, e strutturale poi a persone che vivono le situazioni di L.I.: abbastanza ammalati da essere ricoverati in modo coatto, ma non così tanto da essere coattivamente inseriti in strutture che li proteggano da loro stessi.
In questo i genitori hanno visto l'epilogo scritto, che oggi è un dramma probabilmente senza ritorno. La mamma e il papà di L.I., a sostegno del loro sentire, citano anche il dottor Imperadore, primario del reparto di psichiatria di Verona, che in un convegno a Rovereto ha denunciato da parte della letteratura psichiatrica la mancanza di interesse per «i soggetti multi problematici o dalla doppia diagnosi, constatando, quindi, la mancanza di attenzione al problema tossicomanico-psichiatrico, proprio da quella branca del sapere medico deputata allo studio del settore».