le storie

«Non mandateci via dal Trentino». Awadil, quattro anni per arrivare qui

Parlano i migranti pakistani che dovrebbero essere trasferiti in centri di accoglienza in Sardegna. C'è chi vive sotto i ponti, vicino al parco delle Albere


Andrea Tomasi


TRENTO. «Non spediteci in Sardegna! Fateci stare qui. È qui che vogliamo vivere. Prima di venire in Italia abbiamo fatto delle ricerche su internet. Sappiamo che Trento e il Trentino sono in cima alle classifiche per qualità della vita. Ci sono servizi e un sistema di assistenza sanitaria che funziona». Awadil ha 45 anni, una moglie e un figlio di 12 anni con una grave disabilità. Loro due sono ancora in Pakistan. Stanno attendendo sue notizie. Vive con altri stranieri, sotto i ponti, vicino al Muse e al parco delle Albere, lungo l’Adige. A volte viene ospitato da altri pachistani. Parla inglese e per questo, fra i profughi che si trovano a Trento, è uno di quelli che meglio riescono ad arrangiarsi. «Ma è dura. Si riesce a fare qualche lavoro. Si dorme dove si può. Per 10 euro riesci a passare una notte al caldo da altra gente del mio Paese. Spesso non ci sono letti. Si dorme sul pavimento. Ma non sempre ci sono i soldi e anche adesso, sotto il ponte pedonale e nella zona del museo della scienza, ci sono amici che dormono dentro gli scatoloni. A me è capitato di andare da amici a Milano o a Brescia». Lavoretti fatti qua e là, tutto in nero ovviamente. «In Trentino ho raccolto uva e mele: 50 euro per una giornata di lavoro».

Giornate al limite per lui e per tanti altri. «Siamo tanti». Sono 334, secondo i dati della questura. Per loro non c’è posto nelle strutture di accoglienza allestite in Trentino. Il Ministero dell’Interno ha deciso che una cinquantina di loro venga trasferita nei centri accoglienza allestiti in Sardegna. 

«Ci vogliono lontani da tutto»

«Ma tanti di noi non ci vogliono andare sull’isola perché là ci spediscono in montagna, lontano da tutto. Noi è qui che vogliamo stare. Fra di noi c’è gente che sta male a livello di salute, che ha bisogno di assistenza. Abbiamo controllato su Google: in quei centri non c’è niente».

Awadil è il settimo di sette figli. I genitori erano contadini. Lui in Pakistan aveva messo in piedi un’azienda per la raccolta e la vendita di rottami. Entrato in contatto con un fornitore rivelatosi poco raccomandabile, quattro anni fa finì nei guai perché questi voleva che trasportasse in Afghanistan dei proiettili per armi da guerra.«Sono scappato. Lui mi minacciava. Voleva soldi: un milione di euro perché, diceva, gli avevo fatto andare a monte i suoi traffici. Io sono fuggito in Iran e poi in Turchia. Mentre ero là è arrivato persino a minacciare la mia famiglia con delle armi da fuoco. Adesso mia moglie e mio figlio, nato con dei problemi cerebrali (non cammina e non parla) abitano con mio fratello e mia cognata». Awadil ha vissuto anche in Grecia. Ha lavorato dove ha potuto, come ha potuto. «Volevo venire in Italia, a Trento. Voglio dare un futuro a mia moglie e a mio figlio. Dopo l’Iran, la Turchia, la Grecia, sono stato in Albania. Con altri ho attraversato la Serbia, l’Ungheria, l’Austria, fino ad arrivare qui».

I numeri dell’accoglienza

Continua a ripeterlo: «Non mandateci in Sardegna! Tanti di noi hanno detto di sì alla questura. Tanti altri preferiscono stare qui e aspettare». Aspettare cosa? «Un lavoro, forse. Un aiuto...» Dal Commissariato del Governo si conferma che c’è un grande flusso di profughi sulla rotta balcanica. Trieste è già in difficoltà e pochi giorni fa ne ha ricollocati 200 in Sardegna. I numeri ufficiali del Governo sono questi: in Trentino ci sono 2160 richiedenti asilo (nel 2018 erano 1700). Di questi 2160 gli ucraini sono 1500 (600 sono nei centri dedicati, gli altri in case private o di associazioni e parrocchie). Sono 1300 le persone inserite nel Sistema aiuti trentino: 600 sono di accoglienza straordinaria (pakistani, nigeriani, persone dell’Africa Subsahariana). Quei 600 sono i posti stabiliti nel Protocollo d’intesa definito con il Commissariato del Governo.

Disposti a fare qualsiasi cosa

Queste sono le cifre, poi c’è la realtà vissuta sulla viva pelle, fatta di fatica, sudore, paura, freddo, senso di insicurezza, diffidenza. Difficile immaginare una soluzione adeguata, perché la pressione ai confini è fortissima e il flusso sostanzialmente inarrestabile. Non ci sono solo i barconi. Se gli ucraini sono stati accolti a braccia aperte - visto il coinvolgimento de facto dell’Italia nella guerra contro la Russia (con l’assegnazione di armamenti all’esercito che fa capo al presidente Zelenskyj) - le cose vanno diversamente per tutti gli altri. Se non è la violenza delle bombe, a spingerti in un Paese straniero è il dolore e la fame della tua famiglia. «Io ho 45 anni. Bene o male una fetta della mia vita l’ho vissuta, ma per la mia famiglia sono disposto a qualsiasi cosa, qualsiasi. Per questo tanti di noi non sono spaventati. Sotto i ponti, dentro gli scatoloni, ci dormono anche ora, anche con il freddo».

Quando non hai più soldi

Awadil dice che non c’è ricatto. «My friend, voglio dire tutta la verità. Io con tanti altri, due settimane fa, sono stato contattato dalla questura di Trento: prima un sms e poi una chiamata. Io ero preoccupato. Ho spiegato che ho il permesso di soggiorno. Poi mi hanno spiegato del possibile trasferimento in Sardegna. Quattro giorni fa mi hanno detto di presentarmi all’ufficio del Cinformi. Io non ho detto che non voglio andare. Ho detto che preferirei restare a Trento. Qui voi state bene. Penso che ci possa essere posto anche per noi. Non mi possono costringere, però è un ricatto nei fatti, perché se non ho più soldi non ho scelta» E quindi? «Quindi io dico che tanti migranti che sono nelle strutture di Trento da anni e che hanno un lavoro dovrebbero lasciare il posto a chi sta peggio». Questione di regole e di lotta fra poveri. «Finora, per questo viaggio in Italia ho speso circa diecimila euro». Ne è valsa la pena? «Ne varrà la pena quando la mia famiglia mi avrà raggiunto».

 













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