Lavoro vietato: il caso finisce in parlamento 

Pianezzer, in attesa di cittadinanza, era rimasto per anni senza reddito. Il Tar rinvia la decisione alla Corte Costituzionale



TRENTO. Finisce sul tavolo del premier Conte e dei presidenti di Camera e Senato la vicenda di Valdecir Pianezzer, lo ha stabilito il Tar. Valdecir aveva fatto richiesta alla questura di Trento e al Ministero degli Interni di un risarcimento pari a 40 mila euro a titolo di lucro cessante e mancato guadagno. L’uomo tra i suoi avi annovera santa Paolina da Vigolo Vattaro. Nel 2004 aveva chiesto la cittadinanza italiana in quanto discendente di trentino emigrato prima del 1920.

Dalla provincia di Santa Catarina, Valdecir era tornato in Trentino; era il 2005, l’uomo aveva trovato impieghi stagionali e già l’anno prima aveva presentato richiesta per la cittadinanza italiana, ottenuta poi nel 2012. Nel 2008 il Ministero dell’interno comunicava alla Provincia, su domanda della Questura, che “sulla base della legislazione attuale i cittadini di origine italiana titolari di permesso di soggiorno per attesa cittadinanza non sono abilitati a svolgere attività lavorativa”.

Da quel giorno Valdecir non potè più lavorare, fino al 2012, quando divenne italiano. Da qui la richiesta di risarcimento per quei quattro anni senza lavoro. Il suo avvocato, Zeno Perinelli, aveva impugnato la nota ministeriale, ritenendola illegittima. I giudici amministrativi avevano rinviato l’udienza, in attesa di avere tutti i documenti necessari per decidere. Ora il Tar ha sospeso il giudizio, rinviando la decisione alla Corte Costituzionale. Il diniego opposto al ricorrente corrisponde allo schema legale, secondo i giudici, «poiché non si rinviene nel sistema alcuna norma che consenta lo svolgimento di attività lavorativa ai soggetti in attesa di cittadinanza iure sanguinis». Il Collegio dubita però della corrispondenza di tale schema legale alle norme costituzionali. Il caso di Valdecir riguarda discendenti di persone nate e già residenti nei territori che sono appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, emigrate all’estero: «ad essi si applica la normativa speciale che riconosce la cittadinanza italiana, senza subordinare tale riconoscimento al possesso di un diverso titolo di soggiorno. Ecco che allora viene in rilievo la convertibilità dello speciale permesso, o l’ampiezza dei diritti e delle facoltà collegate al possesso di tale specifico e speciale permesso di soggiorno per attesa di cittadinanza che, non essendo collegato ad alcun altro diverso titolo, e non prevedendo l’autorizzazione all’attività lavorativa, ne preclude, in forza del principio di tassatività lo svolgimento, come ha giustamente rilevato il Ministero dell’interno». Tale diversità di trattamento tra soggetti in identica situazione, rappresentata dall’aver proposto domanda di cittadinanza e di essere in attesa della risposta, gli uni già in possesso di altro permesso di soggiorno, potenzialmente convertibile, e gli altri sforniti di qualsiasi titolo che li abiliti allo svolgimento di attività lavorativa, è tale da far dubitare della rispondenza dello schema della Costituzione. Si tratta dunque «di denunciare il diverso, immotivato trattamento riservato dal legislatore a due situazioni analoghe, ambedue tutelate attraverso il permesso in attesa del rilascio della cittadinanza, ma con un ambito di facoltà e diritti del tutto divergenti».















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