«Io, chirurgo in vacanza per curare bimbi africani»

Enrico Lauro ha preso tre settimane di ferie ed è partito per il Madagascar «Là sono tutti felici senza avere nulla: da quella gente ho imparato tanto»


di Luca Marognoli


TRENTO. Quando ci alziamo in piedi, dopo avere trascorso circa un'ora davanti al pc a guardare fotografie e a parlare di storie “dell'altro mondo”, tra malattie africane da noi impensabili, famiglie di dieci persone che vivono in capanne fatte di rami e pescatori affogati per essersi spinti troppo in profondità in cerca di aragoste extralarge, il dottor Enrico Lauro ti butta lì la frase che spiega tutto: «La cosa bella è che là sono tutti felici e non hanno nulla. Questo fa capire come gli oggetti non contino niente».

Con la testa è ancora all'altro mondo questo chirurgo trentino di 41 anni che ha deciso di concedersi un break dall'ospedale di Rovereto, dove lavora, per andare a operare ad Andavadoaka, paesino di 3 mila persone nel sud-ovest del Madagascar, sul canale del Mozambico. E' stato laggiù tre settimane, non tanto ma neppure poco se si pensa che Lauro ci è andato prendendo ferie e pagando viaggi e “soggiorno” di tasca sua. Era un desiderio che voleva soddisfare da anni: l'ha fatto il mese scorso, dal 27 settembre al 20 ottobre, ma non è certo appagato: «E’ stata una bella esperienza, che mi ha insegnato a relativizzare tutto e mi è servita anche a mettermi in gioco come medico. Un'esperienza impegnativa anche dal punto di vista familiare, visto che ho lasciato a casa moglie e tre figli dai 6 ai 10 anni, ma che ripeterò sicuramente, magari in un altro Paese».

Con lui un'équipe formata da Mauro Previdi, collega della chirurgia generale di Rovereto, Emmanuel Gasperoni, anestesista di San Marino e Marisa Agosti, infermiera di Trento che lavora al San Maurizio di Bolzano. Ad attenderli un piccolo ospedale fondato dalla onlus italiana “Amici di Ampasilava” (il nome della regione, ndr), dotato di otto posti letto, due ambulatori, una poltrona dentistica, una sala radiologica con Rx ed ecografia e la sala operatoria.

«E' un paese dove vedi tantissimi bambini, tanti giovani, pochissimi anziani. C'è una elevata mortalità causata da malattie infettive e traumatismi», spiega Lauro. «No, non esiste il problema della malnutrizione: hanno il mare – sono abilissimi pescatori – e qualche prodotto della terra, come papaya e mango. Scendono a 30 metri in apnea e alcuni si spingono troppo in profondità: in tre settimane ci sono stati un paio di annegamenti. Altre persone le abbiamo salvate: te li portano sui carretti, incoscienti e dispnoici, ma fortunatamente hanno un'ottima capacità di recupero. Rispondono molto bene anche agli antibiotici».

I malgasci della fascia costiera conducono una vita semplice: «Non hanno orologi, acqua corrente, strade. Si regolano in base al ciclo del sole. Le case sono capanne fatte di rami e legni, il pavimento è di terra. Ci sono molti parallelismi con la vita dei nostri nonni, in simbiosi con gli animali e la natura...». La differenza con la città è spiazzante: «Nei grandi centri vedi l'abbruttimento e il degrado di persone che bramerebbero il nostro benessere, c'è molto accattonaggio. Nei villaggi la povertà è più dignitosa: non chiedono nulla, perché non sanno cosa sia una macchina o un computer. Al massimo hanno qualche radiolina: è il loro collegamento con il resto del mondo». Con gli “uomini bianchi” - continua Lauro - «hanno una specie di distacco reverenziale. Ci chiamano “Vasà”, che sta per straniero. Una volta ho dato una mano ad alcune persone a tirare una barca in secca e mi hanno guardato come un alieno. Ho saputo poi che antropologicamente questo popolo di pescatori, i “Vezo”, è famoso per il suo stupore, anche di fronte alle cose più banali. Sorrisi, risate, occhi sgranati dall'eccitazione. Se gli fai vedere un cellulare impazziscono». Una sorta di età dell'innocenza, quella in cui vivono, che si riflette anche nella serenità con cui affrontano la morte: «E' considerata una realtà della vita e come tale accettata». Anche il rapporto con la malattia è diverso, ma questo non aiuta il lavoro del medico. «Non ragionano secondo il concetto di causa-effetto. La malattia è considerata come una specie di spirito maligno e di conseguenza l'anamnesi è più difficoltosa. Noi distinguiamo fra dolore trafittivo, colica, crampiforme, acuto, cronico. Loro conoscono il dolore, “maharari”: se è grande “marè”, se è piccolo “cheli cheli”». Alcuni incidenti sono ricorrenti: «Spesso portavano bambini con grosse ustioni. Laggiù usano bracieri fatti con colonnine di latta sopra i quali appoggiano le pentole e i più piccoli si tirano addosso l'acqua bollente. Ne ho operato uno che aveva il braccio attaccato al torace. Lì la chirurgia serve soprattutto per riabilitare, per ridare la possibilità di svolgere attività come l'agricoltore, l'allevatore o il pescatore. Ho visto anche una bimba con la mano retratta, cioè con le dita fuse assieme, ma non sono intervenuto. Sarebbe servito un chirurgo plastico: non possiamo andare lì e buttarci su tutto, altrimenti si rischia di fare danni».

E l'operazione più complicata? «Su un tumore ginecologico con infiltrazione dell'intestino e della vescica. Il problema di questi interventi è che qualcuno poi dovrebbe assistere il paziente... Un altro ostacolo per noi è la diagnosi preoperatoria: parti con pochi dati e magari, intraoperatoriamente, scopri che il quadro è diverso e la situazione più grave. Sicuramente trovi patologie che qui non sei abituato ad affrontare, come grosse infezioni di cute e sottocute causate dai parassiti. C'è poi la difficoltà legata al fatto che devi misurarti con competenze non tue: io ad esempio, chirurgo generale, ho fatto l'ortopedico, il ginecologo, il pediatra, l'internista...».

L'ospedale sopravvive grazie all'opera di volontari italiani, che in équipe dai due ai sei membri alla volta prestano servizio per alcune settimane: «Bisognerebbe avere la possibilità di formare personale locale – afferma Lauro – in modo che divenga poi stanziale. Altrimenti il cordone ombelicale non viene mai reciso». Molto si potrebbe fare anche per “aiutare chi porta aiuto”: «Queste opere di volontariato, a meno che non siano missioni governative, non sono riconosciute come assenza dal lavoro, quindi tu parti e vai utilizzando le tue ferie e pagandoti viaggi spesso costosi. Sarebbe auspicabile una maggiore sensibilità a livello politico per permettere a chi ne ha la voglia e la possibilità di fare queste esperienze». Nessuno pretende che paghi tutto il pubblico, dice il medico. «Un'assenza giustificata non retribuita sarebbe già abbastanza».

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