SANITA'

Influenza A, flop dei vacciniIn Trentino frigoriferi pieni

Usate solo 7.800 dosi sulle 140 mila previste. L'Azienda sanitaria: "Roma ha sbagliato le stime"


Gianpaolo Tessari


TRENTO. Le celle frigo dell’Azienda sanitaria sono piene fino all’orlo di vaccino anti influenza A. Il flop della campagna con Topo Gigio testimonial è clamoroso: su 140 mila dosi di vaccino assegnate al Trentino (di cui solo metà, per fortuna, consegnate), ne sono state utilizzate 7800, dati recentissimi, di gennaio. E in Azienda, si attende che Roma (che ha sborsato i quattrini per l’acquisto) dica come smaltire una resa di proporzioni senza precedenti.
 La paura della pandemia non ha fatto breccia né tra gli addetti ai lavori né tra le cosiddette categorie a rischio. E il flop della “madre di tutte le vaccinazioni” si porta dietro una serie di questioni: sia teoriche che pratiche. Tutte pesantucce. Una su tutte: che fare delle decine di migliaia di fiale che si avviano alla scadenza (la data ultima è aprile) e che languono in una cella refrigerata di Pergine?
 Vediamo: le ultimissime statistiche curate dall’Azienda dimostrano che il vaccino per la suina non se lo sono fatto inoculare in primis i medici ed il personale sanitario trentino (sopra di un soffio al 20 per cento) con 1509 dosi, ma nemmeno le donne incinte: il vaccino, raccomandatissimo alle future mamme, ne ha sino ad oggi convinto l’inezia del 9,1 per cento, 219 dosi.
 Mentre alle persone in età compresa tra 6 mesi e 65 anni con condizioni di rischio sono state somministrate 4.489 dosi (ovvero il 15 per cento).
 Si diceva dei costi, nell’ordine di milioni e milioni di euro, per un acquisto massiccio di farmaci come mai si era fatto in precedenza. Paga Pantalone, inteso come cittadino italiano, visto che approvvigionamento e distribuzione dei vaccini sono stati curati dallo Stato. La Provincia ne è rimasta fuori: «L’inconveniente è notevole e per quanto ci riguarda è senza precedenti» ammette Alberto Betta, responsabile della direzione igiene dell’Azienda sanitaria. «Normalmente siamo noi a valutare il fabbisogno di vaccini e ad ordinarli. Di fiale per esempio, contro il vaiolo, o contro il morbillo, non abbiamo mai avuto scarti. Lo stesso vale per i farmaci. In questo caso è stata una campagna nazionale e Roma ha stabilito che al Trentino spettano 140 mila dosi anti influenza A. Di queste ce ne sono state consegnate 80 mila. Che ne faremo? Sino ad oggi dal governo non ci sono arrivate indicazioni. Altri stati europei, come la Francia, hanno deciso di ritirarli e di rivenderli a prezzo ribassato a paesi poveri. Vedremo se sarà Roma a ritirarli, come li ha consegnati, o meno. Diversamente toccherà a noi Azienda smaltirli con le procedure speciali legate ai farmaci».
 Ma perché non ci si è vaccinati? «Al ministero ci sono state delle riunioni per analizzare questo fatto: si è visto che le conseguenze dell’influenza erano molto meno tragiche di quello che sembrava in un primo momento. Si è visto che c’era un impatto modesto sulla salute. Molto ha contribuito anche una campagna pubblicitaria dove si diceva che si debbono vaccinare tutti, ma il messaggio era affidato ad un personaggio come Topo Gigio» osserva Betta.
 I primi a non cogliere la raccomandazione sono stati medici ed operatori sanitari. Una sorpresa? Non in Azienda: «In letteratura scientifica si legge che le vaccinazioni del personale ospedaliero, quasi ovunque, si attestano su percentuali basse. E’ un fenomeno generalizzato, motivato probabilmente anche con il contatto continuo di queste categorie le persone malate. Scelta legata, se vogliamo, anche a motivi irrazionali».













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