l'intervista

«Ebola, la nostra lotta contro il tempo»

Mario Raffaelli di Amref: «Creare strutture sanitarie in tempi minori della diffusione del virus. Italia, nessun rischio»


di Luca Marognoli


TRENTO. Quella per sconfiggere il virus è una sfida contro il tempo. L’ebola si ferma con strutture e personale sanitari che, nei Paesi del contagio, non esistono o sono molto carenti. Bisogna realizzarle e inviarle ad una velocità maggiore di quella di diffusione della malattia. Che in Europa e Italia non darà mai origine ad un’epidemia, proprio perché non è tale da impensierire le nostre condizioni igieniche e il nostro sistema sanitario.

Lo afferma Mario Raffaelli, presidente italiano e vice internazionale di Amref, la principale organizzazione sanitaria no profit del continente africano con 155 progetti di sviluppo sanitario gestiti in 5 Paesi. L’ex sottosegretario agli Affari esteri e inviato speciale del Governo per il Corno d’Africa ne ha parlato anche ad “Otto e Mezzo”, su La7, con il ministro Beatrice Lorenzin e Gino Strada in collegamento dall’Africa.

Raffaelli, lei ha molti elementi per valutare la gravità della malattia in Africa e anche forse per dire di che portata è il rischio per l'Europa e l'Italia.

Amref è l'unica realtà che ha il suo quartier generale in Africa e che intervenne in Uganda quando ci fu un focolaio nel 2012, usando i sistemi che vanno usati in questi casi. La prima cosa da fare è stroncare la trasmissione e per fare questo serve un minimo di strutture sanitarie di base, meglio ospedaliere ma anche più rudimentali, come un luogo dove mettere in isolamento gli infetti, un'area dove fare la disinfestazione e una di non contaminazione dove possano essere mandati a fare i loro bisogni. L’ebola comparve la prima volta nel 1976 in ex Zaire e Sud Sudan: il nome, infatti, deriva da un piccolo fiume nella zona. Da allora ci sono state altre 20-21 epidemie sempre in aree rurali. Quello che ha reso questa molto più pericolosa è il fatto che si sia sviluppata anche in aree urbane. Questo deriva dal fatto che i tre paesi interessati sono appena usciti da conflitti e sono molto fragili, con strutture sanitarie inesistenti: se in Spagna ci sono 370 medici ogni 100 mila abitanti, in Guinea sono solo due e in Sierra Leone e Liberia uno.

Da anni Amref è impegnata contro la crisi globale del personale sanitario: nel mondo mancano 7,2 milioni di operatori sanitari, afferma un vostro rapporto.

Il problema vero è questo e spiega perché non bisogna essere catastrofici nei Paesi europei. Nonostante il morbo sia molto violento, ci vuole intanto un contatto fisico per essere contagiati e con strutture moderne è diversa la capacità di isolamento e di controllare il fenomeno.

Infatti il professor il Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani (uno dei due centri di riferimento italiani per combattere ebola), afferma che «un’epidemia nel nostro Paese è impossibile. Non dobbiamo confondere la tragicità della situazione dei paesi africani con la nostra. Il virus non si trasmette per via aerea». Concorda con lui quindi?

Assolutamente: possono capitare alcuni casi, di qualcuno che sia tornato in aereo. Anche accadesse, verrebbe isolato velocemente. Il rischio fuori dall'Africa lo vedo in paesi come India e Cina, dove c'è una presenza di grandi agglomerati urbani ed esistono scarse strutture sanitarie di base. La nostra posizione è che adesso va fermata l'emergenza in questi Paesi: l'Oms ha dichiarato ieri “ebola free” Nigeria e Senegal, che avevano avuto dei casi. Ma anche una volta che si riuscisse a fermare l'espansione, bisogna cogliere l'occasione per colmare il gap, in termini di strutture e soprattutto di personale, fra noi e l'Africa. Noi infatti formiamo più infermieri che medici, perché costa molto meno: si tratta di figure intermedie che in Africa sono in grado di affrontare il 70-80% delle patologie. Il dramma di quei Paesi è che i primi ad essere contagiati sono stati questi operatori. Quindi si abbattono le barriere che limitavano l'espansione...

Lei è stato lì di recente?

Sono tornato tre giorni fa dalla Tanzania, che è lontanissima dai Paesi del focolaio, ma facevano all'aeroporto i controlli necessari. La consapevolezza quindi c'è.

Che tipo di controlli?

Fanno screening domandando se ci sono stati sintomi. Il 10 ottobre l'Oms ha indetto una riunione a Brazzaville dove ha coordinato la politica da seguire, creando due fasce di pericolo: la prima costituita dai Paesi più vicini ai tre coinvolti e una seconda più ampia. C'è quindi una visione globale. Il problema è che il tasso di crescita di strutture sanitarie sul posto deve essere superiore al tasso di diffusione della malattia. Nel caso di scarlattina e morbillo, in media, un ammalato contagia 18-20 persone, di ebola da 1,5 a 2,5.

Molto basso quindi...

Sì, e la mancanza di strutture sanitarie è decisiva. Oltre a questo bisogna anche che vengano evitate pratiche che facilitano la diffusione. Ai tempi della peste, quando si facevano le processioni per invocarne la fine, si creava invece un veicolo di diffusione per la malattia. In Africa, ad esempio, i funerali sono pericolosi, proprio perché cerimonie sociali dove tutti baciano il morto: sennonché i corpi rimangono infetti fino al giorno successivo alla morte. La raccomandazione è di lasciarli seppellire ad uno ad uno da persone specializzate. Quindi servono anche operatori sociali che vadano a spiegare queste cose.

Per chi va in Africa c'è un rischio effettivo?

Evidentemente non è il momento di andare in quelle aree. Ma ci sono tanti italiani che vivono in altre zone, che sono tranquillissimi. Tutto dipende, come dicevo, dalle strutture.

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