ATTACCO ALL’EUROPA»L’INTERVISTA

TRENTO. «Con gli attentati di Parigi lo Stato Islamico ha alzato il livello della lotta terroristica fuori dai propri confini. La reazione dell’Europa e dell’Occidente non può essere l’azione...


di Chiara Bert


TRENTO. «Con gli attentati di Parigi lo Stato Islamico ha alzato il livello della lotta terroristica fuori dai propri confini. La reazione dell’Europa e dell’Occidente non può essere l’azione militare, serve una strategia politica comune che stani i Paesi dell’area mediorientale». Gianni Bonvicini, studioso di politica estera e vicepresidente dello Iai (l’Istituto affari internazionali) di cui è stato direttore, parte da questa analisi.

Professor Bonvicini, se l’attacco a Charlie Hebdo poteva essere ancora attribuito a cellule impazzite, ora è sempre più chiaro che siamo davanti a un disegno terroristico organizzato. Cos’è cambiato nella strategia?

Più che un cambio di strategia assistiamo a un innalzamento della lotta terroristica al di fuori dei confini dello Stato islamico. Ne abbiamo avuto altri esempi recenti, dalle bombe in Libano all’aereo russo abbattutto in Egitto. La differenza rispetto all’attentato contro Charlie Hebdo è che questa è un’azione molto più complessa e naturalmente più complicata da contrastare.

Lo dimostra il fallimento dell’intelligence francese, che pure era in stato di massima allerta dopo l’attentato a Charlie Hebdo.

Sì, l’intelligence attuale sia francese che europea non ce la fa a contrastare un fenomeno che ormai si sta diffondendo a macchia d’olio e che non si riesce esattamente ad individuare nei tragitti che sta compiendo nell’orientarsi verso l’Europa.

Parigi colpita due volte in meno di un anno. Cosa fa della Francia il primo obiettivo del terrorismo islamico?

In Francia la situazione è resa ancora più difficile da una grande minoranza islamica che pesa moltissimo in quel Paese e che è il tessuto su cui è possibile innestare delle operazioni terroristiche che rimangono clandestine fino al momento in cui vengono portate a compimento. Con gruppi islamici fortemente ideologizzati, presenti in Francia ma anche in Inghilterra come abbiamo visto in passato, è difficilissimo avere una buona intelligence che riesca a prevenire gli attacchi. In Francia è fallita la politica di integrazione delle minoranze islamiche, basta pensare a quello che succede nelle banlieue, dove si è costruita ormai una barriera tra francesi e coloro che francesi non vengono considerati.

Quanto pesano gli interventi decisi da Hollande prima in Libia e poi in Siria?

Sicuramente la Francia si è esposta nel caso della Siria, dove i bombardamenti sono ripresi dopo l’attacco a Charlie Hebdo con la scusa di colpire l’Isis per difendere la Francia. Questo ha messo un’arma politica importante in mano allo Stato Islamico e ha confermato la pessima politica francese in Medioriente.

Però oggi sono in molti a sostenere che l’Occidente deve decidersi a combattere veramente l’Isis. È d’accordo?

Quello che succede in Libia non è un’ottima testimonianza dell’utilità dell’intervento militare, che in quel Paese ha creato più guai di quanti ne abbia risolti. Per di più l’azione militare condotta solo con i bombardamenti non ha nessun senso. Bisogna decidersi semmai a mettere gli scarponi sul terreno. Ma non è neanche questa la soluzione, come hanno dimostrato l’Iraq e l’Afghanistan. La soluzione è piuttosto costringere gli Stati dell’area mediorientale, che oggi sono tutti complici di questa guerra civile, ad uscire dalla loro ambiguità. Va costruita una strategia politica diversa e questo non lo può fare la sola Francia, né la sola Italia, e neppure i soli Stati Uniti.

Teme che la reazione della Francia sotto attacco, e più in generale dell’Europa, possa invece essere proprio un’azione militare?

La tentazione c’è, è la prima risposta di pancia. La disperazione sta raggiungendo livelli ormai ingestibili. Da come reagiscono i nostri Paesi, con leggi di emergenza e chiusura delle frontiere, tutto spinge verso un’azione militare. Ma sarebbe un gravissimo errore farlo, e soprattutto come semplice reazione senza pensare a un’azione politica di lungo termine, coinvolgendo tutti gli attori, Russia, Turchia, Iran.

Questi attentati rendono ancora più difficile, in un’Europa spaventata dall’emergenza profughi, distinguere tra terrorismo e Islam. È così?

Quello che sta succedendo oggi in Medioriente è una grande guerra civile tra musulmani, e non una guerra di musulmani contro cristiani e occidentali. Il rischio molto grande che oggi corriamo è di confondere il tema dell’immigrazione, e dei rifugiati che fuggono dalle guerre, con il terrorismo. Ricordiamoci che gli attentati di Londra e di Charlie Hebdo nascono tutti da seconde e terze generazioni di musulmani nati e cresciuti in quei Paesi. Troppo facile l’equazione immigrati uguale terrorismo, che alimenta movimenti razzisti che mettono a repentaglio la capacità di reagire democraticamente a questi fenomeni. Questo rischia di farci dimenticare che occorre portare avanti reali politiche di integrazione. Ma oggi servirebbero dei leader illuminati che si prendano la responsabilità di far ragionare l’opinione pubblica, e francamente non li vedo.

Dalla sala concerti allo stadio al ristorante, il terrorismo colpisce i simboli della vita in Occidente. Che reazione si attende dall’opinione pubblica e quanto è importante per reagire al terrore?

O l’Europa dà segnali concreti di prendere in comune la lotta al terrorismo, ovvero politiche e strumenti comuni di polizia e di giustizia, o le manifestazioni il giorno dopo perdono qualsiasi significato. L’Europa ha tentato di farlo dopo l’attentato alle Torri Gemelle, mettendo in piedi un Ufficio antiterrorismo a Bruxelles, ma i risultati sono stati scarsissimi e ogni Paese continua ad andare avanti per la propria strada. Ma contro un terrorismo che non ha frontiere, la battaglia si può vincere solo insieme.

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