Storia

Ottanta anni fa l’8 settembre: i ricordi di chi visse da bambino “el rebalton”

L’armistizio del 1943, festeggiato all’inizio come la fine della guerra, fu un momento tragico: «I soldati in fuga chiedevano vestiti civili


Carlo Bridi


TRENTO. Ricorrono oggi gli 80 anni dal tragico 8 settembre del 1943, data che rappresenta al tempo stesso la morte e la rinascita della Nazione che vide Trento come una delle prime città protagoniste del tragico momento. Da Roma erano fuggiti sia il Re che gli alti comandi militari con l’abbandono delle truppe italiane alla rappresaglia tedesca che scattò immediatamente. Seguita all’armistizio che portò di fatto al collasso dello Stato.

Quel tragico momento venne definito dai trentini con un termine dialettale molto efficace, con una sola parola “el rebalton”, cioè il momento nel quale non si sapeva più chi comandava. In quel giorno molti soldati che si trovavano all’interno delle caserme di Trento sud approfittando della confusione e del fatto che nessuno era più in grado di dare ordini, scapparono dalle caserme. Ovviamente cercando di abbandonare da subito la Valle dell’Adige dove avrebbero potuto venir presto individuati e ripresi dai tedeschi, e trattati come disertori: come minimo li avrebbero mandati nei campi di concentramento.

La via per abbandonare velocemente Trento venne individuata nelle pendici della Marzola che salivano fino a Maranza. Di lì molti soldati sempre percorrendo le stradine dei boschi arrivarono fino a Vigolo Vattaro, ma altri proseguirono ancora verso Bosentino e Castagnè.

Io all’epoca non avevo ancora compiuto gli otto anni e abitavo con la mia famiglia a Vigolo Vattaro, la nostra casa in cima al paese, era la prima che i soldati si trovavano davanti. Questi scendevano dal vicino bosco a gruppetti dalla Marzola, dopo qualche ora di cammino dalle caserme a Trento.

Ricordo nitidamente quel tepido pomeriggio assolato dell’8 settembre: eravamo con mio nonno Antonio, personaggio antifascista di Vigolo amico del senatore Luigi Carbonari. Era in strada ed accoglieva questi soldati impauriti con la loro divisa di flanella in grigio verde. Per prima cosa ci chiedevano se c’erano soldati tedeschi nelle vicinanze. Alla risposta negativa si toglievano il moschetto e le munizioni dalla spalla e si toglievano pure la divisa grigioverde.

I miei nonni e mia madre (visto che mio papà era precettato in miniera a Calceranica), diedero a questi giovani disperati tutti i vestiti vecchi che avevano. Poi mio nonno fece incetta di altri vestiti in altre famiglie vicine. Rifocillati con un piatto di polenta, luganega e crauti, in abiti civili, questi giovani riprendevano la via della fuga verso il Veneto e verso il Friuli, regioni di provenienza della maggioranza. I miei nonni e mio padre, quando tornò dalla miniera, nascosero tutte le divise che diventarono vestiti che pizzicavano su tutta la pelle per noi bambini e bambine nell’angolo più recondito del soffitto assieme a molti moschetti e munizioni.

La polvere da sparo delle munizioni venne meticolosamente tolta da mio padre, esperto fochino della miniera, dalle cartucce e veniva usata per sbriciolare “le zoche” (la base dei tronchi), delle piante di abete e larice per farne legna da ardere allora molto scarsa.

Diversi di questi ragazzi finita la guerra tornarono a casa nostra per ringraziarci di aver loro salvato la vita. Infatti la notte fra l’8 e il 9 settembre le truppe tedesche attaccarono le caserme di Trento, con le loro corrazzate e ben poco poterono fare i fanti e gli alpini male armati che subirono una inevitabile sconfitta dopo un notte di combattimenti per difendere le caserme. La maggior parte venne fatta prigioniera e coloro che non avevano perso la vita vennero mandati nei campi di concentramento, dai quali oltre un migliaio di loro non fece più ritorno. Sembra impossibile che quella carneficina non abbia insegnato nulla, a distanza di 80 anni ci ritroviamo con una guerra alle porte dell’Europa per un’aggressione della Russia dell’Ucraina uno stato sovrano.













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