il caso 

Carcere, non ci sono assistenti sociali

Addetti alle pene alternative: dovrebbero essere 12, da maggio saranno 3. «Non siamo più in grado di garantire i diritti»


di Chiara Bert


TRENTO. «Non siamo più in grado di svolgere il nostro lavoro in modo professionalmente adeguato e decliniamo ogni responsabilità per eventuali conseguenze imputabili all’agire di funzionari che continuano a lavorare in una situazione di emergenza». Firmato: gli assistenti sociali superstiti. Sono gli assistenti sociali dell’Uepe di Trento, Ufficio di esecuzione penale esterna, quello che si occupa di seguire i detenuti che chiedono l’accesso alle misure alternative al carcere: affidamento in prova al servizio sociale, domiciliari, semilibertà e, dalla fine del 2014, il nuovo istituto della messa alla prova previsto per alcune categorie di imputati in attesa di sentenza.

Dovrebbero essere in 12, nell’ufficio. Oggi sono 5: una si è licenziata lo scorso dicembre perché non ce la faceva più, un’altra ha chiesto di essere prepensionata, «meglio rinunciare a una fetta di pensione che continuare a lavorare così». Dal 1° maggio saranno in tre, di cui uno part-time.

Con un carico di lavoro che continua ad aumentare: nel 2015 i casi gestiti sono stati 1647, di cui 600 di messa alla prova, con un trend in netta crescita, 736 casi nei primi tre mesi del 2015, un migliaio nel primo trimestre di quest’anno. Il risultato è una situazione potenzialmente esplosiva, dove i detenuti che avrebbero tutte le carte in regola per accedere alle misure alternative non possono farlo perché il personale non è in grado di seguire i casi. Una legge dello Stato che rimane inapplicata, mentre le carceri scoppiano: a Spini sono i detenuti sono 300, con una cronica mancanza di agenti di polizia penitenziaria.

Il ritardo nella gestione delle pratiche si accumula e ci sono già state contestazioni nei confronti degli assistenti sociali, che hanno il compito di seguire sia la fase istruttoria (stilando una relazione per il tribunale prima della concessione della pena alternativa), sia la fase esecutiva (esigenze degli utenti, verifiche, modifica delle prescrizioni). «Siamo al collasso, nell’indifferenza generale», è il loro grido d’allarme.

Le misure alternative sono la risposta che lo Stato ha messo in campo per combattere il sovraffollamento delle carceri e per dare alla detenzione uno scopo non solo di punizione ma anche di riabilitazione del condannato. I dati dicono che la recidiva di un reato si riduce al 17% se si schiudono le porte del carcere adottando pene alternative, mentre è del 67% se la detenzione viene scontata dietro le sbarre fino a fine pena. Ma perché queste misure possa essere applicate, e non restino solo un’enunciazione sulla carta, serve personale. Assistenti sociali innanzitutto, che mancano in tutta Italia.

E il Trentino non fa eccezione, anzi. Il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria da cui dipende l’Uepe, che entro l’anno dovrebbe passare al Dipartimento giustizia minorile) ha bloccato da tempo le assunzioni. I carichi di lavoro sono arrivati a un livello non più sostenibile, lamentano gli assistenti sociali, che a febbraio sono tornati a scrivere al ministro della giustizia, al Dap, al Provveditorato di Padova da cui dipende Trento, al direttore dell’Uepe (l’interim è affidato al direttore del carcere di Spini), al presidente della Regione e della Provincia Ugo Rossi, al Tribunale di sorveglianza, alla Camera penale, all’ordine degli avvocati, all’Ordine degli assistenti sociali.

Negli altri Paesi europei la media è di 30 casi a testa di messa alla prova, i casi in cui l’Uepe deve mettere a punto un complesso programma di trattamento del carcerato che prevede una serie di attività obbligatorie, un lavoro di pubblica utilità, condotte riparative, il risarcimento del danno, dove possibile un’attività di mediazione con la vittima del reato. «A Trento il carico di lavoro ha raggiunto i 280 casi per operatore», denuncia Luigi Diaspro (Funzione Pubblica Cgil), «si lavora solo sull’urgenza, senza riuscire a rispettare le scadenze, costretti a chiedere spesso e volentieri al tribunale di sorveglianza di rinviare le udienze».

Nel 2015 il personale ha proclamato uno stato di agitazione in tutto il Triveneto: senza ottenere nulla. I contrattini a tempo determinato che in passato, con il progetto Master finanziato con i fondi europei, hanno consentito di tenere in piedi l’ufficio, sono scaduti e non sono stati rinnovati.

L’appello dei lavoratori e del sindacato è rivolto anche alla Provincia, che già ha dimostrato attenzione: da fine del 2014 è stato aperto uno «Sportello diritti», con un’operatrice pagata 5 giorni a settimana per dare informazioni sulle nuove norme della messa alla prova. Ma le risorse si sono ridotte, e l’apertura è calata a tre giorni. «Con tutto il rispetto per i 5 milioni stanziati per rinnovare le caserme dei vigili del fuoco - osserva Diaspro - una Provincia come la nostra, nota per l’efficienza della sua pubblica amministrazione, non può lasciare sguarnito un ufficio così importante per i diritti costituzionali. Il grido degli assistenti sociali va ascoltato, e con loro quello dei detenuti».

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